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N°444 10-09-2007 - 12:08 Antonio
De Vito da Dante a Totò
“Napoli è ‘a città cchiù bella d’’o munno!” mi dice, seduti qui a conversare davanti ad una margherita verace e fumante che anche a Napoli si riesce a gustare ormai solo in rarissimi locali; siamo qui, in quello che per il gotha internazionale è, invece, il posto più esclusivo al mondo, la Costa Smeralda! Eppure Napoli non è stata sempre una mamma per lui; spesso, matrigna. Antonio De Vito, che ama presentarsi come “Antonio la Trippa”, a causa della sua incredibile somiglianza con Totò, è il personaggio napoletano per antonomasia che meglio riassume il carattere, la forza, la filosofia, il senso della giustizia giusta, del dovere: qualità che distinguono nel mondo il napoletano vero. Il napoletano che – purtroppo – è sempre più raro; quello che dovrebbe essere protetto come appartenente ad una specie in via d’estinzione persino dal WWF. Se a Napoli, come avviene a Milano con l’assegnazione dell’Ambrogino d’oro, esistesse un premio per il Napoletano verace, un Gennarino d'oro, in molti – tra gli amici e gli avventori internazionali del suo locale – concorderebbero per assegnare a lui il massimo riconoscimento, nonostante la maledizione atavica del "nemo Propheta in Patria". Eppoi, Antonio, è una memoria storica di Napoli ed è stato protagonista, sin da quando aveva undici anni ed incontrava, quasi ad esserne la mascotte, Mussolini che si recava spesso a Napoli in visita al convitto in Piazza Nazionale. Dice di aver anche sparato, una volta, per prova, con lo schioppo del Duce e di Mussolini dice solo che era un gran giornalista e letterato, un uomo gioviale e rassicurante, così come ama ricordarlo..."a parte quella gran cavolata di mettersi con Hitler!".Era ancora un bambino quando nell’immediato dopoguerra, per necessità della famiglia, morto il papà, si conquistò la simpatia degli americani che lo presero a servizio alla mensa ufficiali per dargli la possibilità di guadagnare qualche soldo ma soprattutto l’ambitissima tessera dei “militari” per il razionamento di vettovaglie così importanti per superare i momenti tristi della fame più nera che come un’epidemia incombeva, in quegli anni, su tutta Napoli. Vivace intelligenza, ottimismo spinto all’estremo anche davanti alla più cruda realtà della città “cchiù bella d’’o munno” ma anche la più bistrattata, disonorata, sfigata città d’Italia, Antonio De Vito cresceva guardando avanti e mai voltandosi indietro. Proveniva da un’antica generazione di ristoratori: friggitori e pizzaioli dei tempi della democratica pizza “oggi a otto” (mangio oggi, domani… e dopo… e ti saldo quando prendo ‘a “semmàna”) e del “caffè pagato” ovvero la tazzulella lasciata a disposizione dei più poveri dagli avventori poco più fortunati. La “pizza oggi a otto” e il “caffè pagato” sono i capisaldo della CIVILTA’ partenopea, un fenomeno di democrazia che non si è mai verificato in alcuna parte del mondo e che conferma, meglio di un libro di storia, usi e costumi di un Popolo CIVILE, nonostante le menzogne post-risorgimentiste ed altri ammennicoli sgradevoli di una Questione Meridionale studiata a tavolino da questuanti settentrionali eppoi… “romani”! Antonio, titolare tra l’altro della storica palestra “Folgore” per boxeur in Piazza Dante, sposa la figlia di un’altra generazione di ristoratori “democratici”, in attività addirittura dal 1846 diventando, così, il genero della più nota ristoratrice della Napoli dei Quartieri, la mitica “Nennella”; accanto alla palestra sorgerà, nel 1955, la celebre pizzeria “Dante” – la’, dove ora c’è un mortificante fast-food americano – e, nel tempo, grazie ad una numerosa e unita famiglia, composta soprattutto da figli che letteralmente adorano ed onorano cotanto genitore, un altro ristorante sarà aperto in Via Annella di Massimo, al Vomero. La vita è dura, i ritmi sono stressanti: a Napoli, per tradizione, si pranza e si cena a tutte le ore… la clientela è numerosa ed affezionata e non mancano le solite vessazioni nei riguardi di chi si è fatto un nome, un’attività, una “posizione”, pur se sudando sangue. Di episodi sconcertanti di minacce e violenze subite, pur di non piegarsi alla legge del “pizzo”, Antonio ne ha da raccontarne di tutti i colori, anche di quando, tanti anni fa gli incendiarono l’automobile e lui chiamò una pantera dei carabinieri… che sta aspettando ancora! Antonio è perspicace, ottimista ma è anche un duro di fronte alla stupida arroganza altrui ed alla gratuita violenza e sa mostrarsi più autorevole di qualsiasi “guappo”… ma, a lungo, stanco e stufo inizia anche a pensare che ormai assurto al massimo rango di chef sarebbe anche piacevole offrire i suoi servigi ad una clientela internazionale, magari in un luogo à la page dove poter assicurare ai propri figli un destino diverso e più qualificante. Parte in vacanza con la famiglia, un’estate di tanti anni fa, e sbarca da turista in Sardegna. Mare e paesaggio fantastici, turismo di un certo livello incalzante qui da tutto il mondo, ritmi di vita molto diversi da quelli frenetici di Napoli e s’avvede di una gravissima pecca: il settore della ristorazione è molto scarso, qualitativamente; in poche parole, le sue: “Nun sapevano magna’!”. Da 23 anni ormai in Costa Smeralda, “Dante” – dal nome dello storico locale nell’omonima piazza partenopea – è diventato il più conosciuto e amato ristorante di Porto Cervo e la sua cucina è la migliore promozione dell’arte culinaria e della civiltà partenopea nel mondo. In quanto, poi, al rapporto qualità-prezzo - nonostante la "rendita edilizia" di troppi immeritevoli imprenditori locali - qui, l'onestà trionfa, perchè è privilegiata l'arte dell'accoglienza e non quella delle finanze. La lingua, la cucina e l'arte sono, infatti, il termometro della civiltà di un Popolo. I suoi avventori di rango, provenienti da tutto il mondo, sono persino convinti – non conoscendo la storia di quest’uomo – che Dante sia il suo nome di battesimo. Ed a proposito del Sommo Poeta e della sua passione per la lingua e letteratura italiana ci tiene a sottolineare che la vera lingua italiana è quella parlata dai sardi e non dai toscani… incredibile Antonio la Trippa! Il “Dante” è situato sulla litoranea alle soglie di Porto Cervo; da qualche anno, sulla collina di fronte incombe il celebre gossipparo Briatore con il suo “Billionaire” spenna-polli, monumento ai nuovi ricchi (o agli arricchiti?). Anche lassù si pranza e si cena e, con orgoglio, Antonio racconta che il “pizzaiolo” del Billionaire è suo figlio. Ma Giuseppe, il suo unico figlio maschio, si affretta a dirci che il pizzaiolo di lassù è solo un allievo di Antonio e che per Antonio è assimilabile alla sua diretta discendenza, per meriti acquisiti nell’azienda di famiglia. La famiglia, appunto,…non come la s’intende in modo volgare, ormai, nelle cronache nere della pur sempre bella Napoli: la famiglia vera, unita, solidale con tutti i membri. Se Antonio non fosse stato un buon capofamiglia non avrebbe avuto tanto successo. Sua moglie è una roccia, un’instancabile lavoratrice, i suoi figli gli assicurano la continuità aziendale. Una “succursale” sarda del “Dante” è a San Teodoro gestita da una figlia; gli altri, lavorano dividendosi razionalmente i compiti con i genitori. Antonio è anche l’eroe che sventò, in Sardegna, il sequestro del notaio Mazzarella, per la sua prontezza di spirito. Se gli chiedo quali potrebbero essere le differenze tra la criminalità napoletana e quella sarda, dice che sono due fenomeni ben diversi e che in Sardegna non vi sono criminali come a Napoli; in molti casi, un sardo che si ritiene offeso reagisce con il “dispetto” e non con la vendetta! Tra fine ottobre e inizi novembre, ogni anno, quest’innamorato della Sardegna che, per non dispiacere alcuno e per rispetto a tutte le identità, nel suo ristorante offre tipici piatti della cucina napoletana ed anche di quella sarda oltrechè internazionale, fa ritorno nella sua Napoli ed ogni volta è sempre un ritorno commovente anche se le cronache cittadine invitano a scarsa emozione! ‘A città cchiù bella d’’o munno, attende paziente questo suo antico scugnizzo e gli spalanca le braccia con amore materno, carnale ma un po’ dispettosa, però, come se fosse una fata del mirto della Costa Smeralda! Sindaco Jervolino, al tuo posto preferirei nobilitare persone come Antonio De Vito, nostro biglietto da visita nel mondo, piuttosto che certi brutti ceffi che fanno folklore di basso profilo nella nostra anestetizzata città...quali quelli che nel quartiere Barra, durante la tua ultima campagna elettorale, serrarono il quartiere al pubblico e ti portarono in processione come la "madonna del carmine" su di una sedia gestatoria... Pensaci (per saperne di più e per contatti: www.ristorantedante.com Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 0 ____________________________________ Messaggio
N°421 10-08-2007 - 17:53 Un
anno fa, l'11 agosto, ci lasciava Giacinto Auriti E’ trascorso
un anno dalla scomparsa del prof. Giacinto Auriti ed è come se
fosse avvenuta oggi. Il vuoto che ci ha lasciato è ancora più
evidente se si tiene conto dell’attualità delle sue idee, dell’anelito
di giustizia che caratterizzava tutte le sue azioni ed attività
e della sua grande umanità. Le domande e le questioni che lui
aveva posto sono sempre più attuali e la sua Teoria, inizialmente
ritenuta una utopica espressione di uno stravagante professore
universitario, pian piano assume i contenuti di una verità in
divenire per fatti concludenti. Aleggia sul terrazzo di Guardiagrele
della sua Casa Natale, da pochi giorni riaperta per il periodo
estivo dalla moglie e dai figli, la domanda “L’euro di chi è?”.
Quello striscione, collocato in bella vista sulla piazza centrale
di Guardiagrele, attende ancora una risposta e, nel contempo,
rappresenta un monito per tutti coloro che lo conobbero ed anche
per chi non ebbe tale fortuna, per non dimenticare e, nel contempo,
per diffondere la grande verità della “proprietà popolare della
moneta”. Il suo ricordo è indelebile per noi, ma al ricordo occorre
coniugare il segnale della continuità, per far sì che la lotta
di oltre
cinquanta
anni di vita del prof. Auriti, dedicati alla servizio della collettività
e al bene comune, non vengano dispersi. Ed allora queste brevi
righe vogliono porre l’accento su entrambi i profili: ricordo
e divulgazione della teoria. In riferimento al ricordo, che guarda
al passato come monito per il presente e si attua con segnali
tangibili, mi rivolgo al Sindaco di Guardiagrele, affinché, oltre
alla targa sulla Casa Natale (che è, poi, una scelta insindacabile
della Famiglia), sostenga l’iniziativa di molti guardiesi di vedere
un busto del prof. Auriti collocato ad imperituro ricordo in una
zona del centro storico. Ma al Sindaco stesso devo rivolgermi
per sollecitare anche l’altro profilo, quello dinamico della divulgazione
della teoria, ricordando a me stesso che si fece promotore, con
grande sensibilità ed onestà culturale e con lo spirito critico
– conoscitivo di chi è aduso all’utilizzo della ragione, della
creazione di una scuola, sotto l’egida e il patrocinio del Comune
di Guardiagrele, per comprendere, diffondere e sottoporre a vaglio
dialettico le tesi del prof. Auriti. Solo così il ricordo non
avrà mai la peggio dinanzi all’ingiuria del tempo e le future
generazioni, che saranno loro malgrado poste dinanzi al problema
della grande usura e della truffa dell’emissione monetaria, saranno
dotate di armi e strumenti per comprendere la rilevanza vitale
della questione e per volgere lo sguardo al bene comune in luogo
di quello di pochi eletti o iniziati. E’ di questi giorni la dibattuta
questione della vendita dell’oro accumulato presso la banca d’Italia,
non – si badi – della banca d’Italia. Se la grande truffa dell’emissione
monetaria ha fatto sì che l’istituto di emissione, oggi BCE, la
vera spektre dei giorni d’oggi, si arrogasse senza titolo e legittimazione
la proprietà della moneta al momento dell’emissione, costituisce
naturale corollario che l’oro, che precedentemente costituiva
la riserva fittizia, non può essere liberamente dismesso ed i
relativi proventi incamerati dallo Stato, in rappresentanza organica
di tutti i cittadini, perché il grande usurario lo ritiene di
sua proprietà, in barba all’interesse nazionale e collettivo.
Quell’oro, bottino del reato – per vero marginale rispetto a quello
derivante dal signoreggio –, è di tutti i cittadini italiani.
Quanto avevi ragione prof. Auriti! L’assassino può forse smettere
di delinquere, lo strozzino no, perché la sua è malattia morale
e culturale. Pertanto, per porvi rimedio è necessario eliminare
l’oggetto del desiderio: la proprietà della moneta. Con l’introduzione
della proprietà popolare della moneta il grande usurario è fuori
dal gioco e tornerà ad essere quello che da sempre doveva essere
il suo ruolo: il tipografo della moneta. Nonostante la nostra
disorganizzazione e finanche la disomogeneità di coloro i quali
hanno ricevuto i Tuoi insegnamenti, questo non lo dimenticheremo
mai e, per quello che ci hai dato, non Ti dimenticheremo mai,
perché non per noi non sarai “mai morto e mai ferito”. Sabato
11 agosto 2007, alle ore 18,30 presso la Chiesa di S. Chiara in
Guardiagrele vi sarà una Messa in suffragio. Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 0 ________________________________________ Messaggio
N°408 23-07-2007 - 13:04 Il
conte di Cacagliostro nuovo beniamino dei napoletani Ermenegildo Balsamo, meglio conosciuto come il Conte di Cacagliostro, era il fratello gemello del più noto Giuseppe Balsamo, il Conte di Cagliostro. Nato come suo fratello il 2 Giugno 1743, scappa di casa all'età di 16 anni per le modeste condizioni economiche della famiglia ed inizia il suo lungo viaggio che lo porterà a Napoli, terra della quale si innamorerà perdutamente al punto da arrestare il suo viaggio proprio nella grande Capitale del Regno delle Due Sicilie (generalmente, nella sua biografia, si conviene di inserire nella trattazione storica del Regno delle Due Sicilie tutto il periodo di sovranità borbonica sui regni di Napoli e Sicilia - a partire dunque dal 1734 - per una evidente comprensione della realtà storica e sociale che vide protagonista il Cacagliostro, nella ininterrotta continuità tra le diverse entità statali). Il destino volle fare in modo che i due fratelli si rincontrassero a Napoli, dove Cagliostro venne per incontrare il Principe di Sangro mentre il meno conosciuto fratello viveva in città sopravvivendo a stento e dormendo sotto i fondaci per proteggersi dalla pioggia e dal freddo invernale. Nel suo viaggio napoletano il Cagliostro si appropriò di un mistico libro, l' IESIMO, nel quale c'erano riportati tutti gli studi del Principe di Sangro, rubatogli per uno strano scherzo del destino proprio dal fratello Cacagliostro, che aveva una mania cleptomane.Fu così che il Cacagliostro iniziò i suoi studi alchemici che lo portarono a formulare una pozione grazie alla quale rimane ibernato fino ai giorni nostri.Trovato nella Napoli sotterranea da un gruppo di amici, il Conte di Cacagliostro si risveglia ai giorni nostri ed inizia a girare per le vie di Napoli creando folclore per i suoi abiti del ' 700, per il suo fare grottesco e soprattutto per la sua mania "cleptomane". Per grandi e piccini un nuovo paladino del bene! Da un'idea di Domenico Eremita e Mario Verdetti è in arrivo nelle vostre case chi vi farà ridere a crepapelle!! Divulgate la notizia che è tornato un "Conte" rimasto ibernato per 200 anni a Napoli ... Per seguire le avventure del Conte di Cacagliostro è sufficiente collegarsi al sito www.campaniavirtuale.it Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 0 _____________________________________ Messaggio N°383
del 29-06-2007 - 11:29 Jean Noel Schifano il napoletano più fiero al mondo Il 27 giugno scorso, presso la Fondazione Mondragone, Jean Noel Schifano, accompagnato dall’editore Antoine Gallimard, ha presentato la sua ultima fatica letteraria: il Dictionaire amoreaux de Naples, un corposo volume di oltre cinquecento pagine, scritto in francese, che attende ancora la stampa presso un editore italiano. Numerosi sono i libri che lo scrittore francese, a lungo dinamico direttore del Grenoble e cittadino onorario di Napoli, ha dedicato alla nostra città. Più che parlare del suo Dictionaire, un compendio di tremila anni di storia partenopea, l’oratore, stuzzicato anche dagli interventi del pubblico, si è infervorato nel proporre rimedi alla disastrosa situazione dei nostri giorni ed ha consigliato calorosamente di rimpossessarsi della nostra identità perduta, enumerando gli interminabili record del Regno delle due Sicilie al cospetto dei record negativi di oggi, da capitale della monnezza a territorio incontrastato della criminalità organizzata. La proposta più originale suggerita dal nostro amico è stata quella di cambiare il nome di alcune strade, per cancellare le tracce della colonizzazione piemontese avvenuta con la truffa dell’Unità d’Italia: piazza del Plebiscito dovrebbe tornare al toponimo di Largo di Palazzo, via dei Mille andrebbe mutata in corso Gianbattista Basile ed infine piazza Garibaldi, tolta al famigerato eroe dei due mondi, origine di tutti i nostri guai, andrebbe intitolata al 3 ottobre 1839, una data storica anche se poco conosciuta: l’inaugurazione della prima linea ferroviaria italiana, la Napoli Portici.Schifano proponeva di seguire la via di una petizione o meglio ancora quella di un referendum popolare (ignorando forse che nel nostro ordinamento non esiste tale forma giuridica). Il sottoscritto, nel corso del dibattito, ha rammentato che anche il corso Vittorio Emanuele, la prima tangenziale del mondo, aspetta ancora giustizia e l’intitolazione al nome del suo ideatore, Ferdinando II, che la realizzò in poco più di un anno. Poi, infervorato dal suo entusiasmo e dalle sue parole, ho preso solennemente l’impegno il giorno 4 luglio, bicentenario della nascita di Garibaldi, di recarmi, da solo o con qualche altro volenteroso poco importa, nella piazza della stazione e di cambiare materialmente le targhe che indicano il luogo come piazza Garibaldi con la nuova dizione di piazza 3 ottobre 1839, una data fatidica della nostra storia che i nostri colonizzatori hanno cercato di farci dimenticare. Tutto il mondo deve sapere che i Napoletani sono gente antica, che non vuole recidere le radici col passato e che ha rifiutato vigorosamente le suadenti sirene della modernità. Rappresentiamo una delle ultime tribù della terra in lotta contro la globalizzazione. Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri, passeggiamo sulle strade selciate dove posò il piede Pitagora, ci affacciamo ai dirupi di Capri appoggiandoci allo stesso masso che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche melodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba, ma soprattutto sappiamo ancora distinguere tra il clamore clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo ed il frangersi del mare sulla scogliera sottostante. Avere salde tradizioni e ripetere antichi riti con ingenua fedeltà è il segreto e la forza dei Napoletani, gelosi del loro passato ed arbitri del loro futuro, costretti a vivere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente. Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 4 Inviato
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N°357 del 14-06-2007 - 16:45 don Giuseppe Rassello Su di lui è stato scritto tutto e il contrario di tutto e, sempre, per insana "prouderie". Cerchiamo di conoscerlo, invece, nella sua veste di "prete in trincea" da queste che, drammaticamente presaghe, sembrerebbero essere le sue ultime volontà, meditate in quel caos sociale, sospeso tra il sacro e profano, ch'è da sempre, a Napoli, il famigerato quartiere Sanità con tutte le sue perfide, diaboliche contraddizioni e colpevoli omertà... più letali della menzogna manifesta. "In-ludere, ovvero giocare contro. Opporre all’Inevitabile l’Imprevedibile, e credervi, e sperarvi con tutta l’anima. Farsi gioco dei fatalismi, come dei realismi, e formulare questo Simbolo: Dio è la Libertà assoluta. Egli è l’Imprevedibile. Perché lì dove cessa la tua potenza d’in-ludere, dove l’Altro ti lascia giocare solo per pietà, o per ridere, lì non esiste Dio.Dalla Sanità ho imparato ad in-ludere. Ho appreso la Parola ed il Gesto che, deus ex machina, sbroglia le più angosciose situazioni, crea nuovi spazi d’intesa, smitizza gli dei fatti di cartone e di paura, distrugge con la forza del Silenzio, la fatale trappola dei sillogismi borghesi, apre i deserti della formalità ipocrita e dell’opportunismo malvagio alla dirompente invasione dell’Amore. La Fantasia e la Drammaturgia sono l’ispirazione genuina e la vera arte di questo popolo. Qui puoi sognare senza perdere il Reale, e recitare, senza fingere; nel riso, non scordare il pianto, né tra le lacrime, il riso. Districarli col bisturi asettico della filologia del folclore è opera tanto assurda quanto vana. L’Accademia di questa gente è la Strada, teatro e cantiere d’esperienze e sensazioni. Maschere vive di sovrumana bellezza, dove, ad ogni battito del tuo cuore, risponde un’eco dell’altro. E se ti sfugge lo sguardo, è solo per condurti dentro i meandri dell’anima, che scoprirai colta, e sapiente, e viva. Occhi capaci di dirti, con tutta sincerità, che quanto vai costruendo può repentinamente cadere, e quanto sta cadendo può rinascere tra le tue mani; menti capaci di custodire una storia inaudita, felici d’offrirtela nel sublime dettaglio del Quotidiano, capaci d’interessarsi al non-interessante, d’utilizzare l’inutile (il celeberrimo po’ s(e)rvì), di banalizzare il finto poetico e di cantare, in vera poesia, il prosaico reale. Illusione, dolce chimera sei tu! Chi sa che da queste mura off-limits della "civiltà" non nasca la Rivoluzione e la Storia: Con i tuoi schemi, oltre i tuoi schemi. Ma, soprattutto, con i tuoi occhi, col tuo sguardo, con la mente e con l’anima tua. Utopia. Dicono tutti: ciò che succede qui, non succede in nessun posto. In breve, Sanità è utopia. Noi della Sanità ci rifiuteremo sempre di essere analizzati, "capiti", spiegati, "aiutati", colonizzati. Rifiuteremo la miserabile elemosina dei "colti", rifiuteremo i commoventi entusiasmi dei nostri ammiratori populisti che, per i loro safari elettorali o per le loro accademiche performances, scendono a catturare e, se potessero, uccidere ed imbalsamare specie culturali in estinzione. Non omnis moriar. Non siamo finiti. Sappiamo anche perdonare ed amare, accogliere e nutrire: Da Giacomo il Persiano, a Gaudioso l’Africano, a Simmaco il Romano, ai Cinesi che nel ‘700 abbiamo visto scendere a centinaia. Si, ci si droga (ma anche al Vomero). Si, si ruba (ma non meno a Montecitorio). Ma qui possono crescere anche i fiori, si può ancora sentire il caldo profumo del pane, i colombi volano ancora a stormi, delizia dei nostri ragazzi… Ci fidiamo. Ma, attenti, ci fidiamo di fare cose grandi. Il successore del vescovo Severo ( Corrado Ursi), è convinto che un giorno cambieremo nome: da Sanità a Santità. Illusione, ovvero la Sanità come volontà e rappresentazione. Questo che scrivo è dedicato a tutti. Ai bambini, innanzitutto. Offendetevi ancora bambini, dignitosamente, se vi chiamano scugnizzi, casomai spettinandovi mellifluamente il capo. Restituite sempre, malgrado affettuose insistenze, tutto il resto delle sigarette al signore di buone creanze. Voi sapete ancora abbracciare e piangere, sapete già lavorare e morire. Ai ragazzi e ai giovani. Ai più imprevedibili, cioè ai più liberi. A voi che siete capaci delle più esaltanti gazzarre e dei più sublimi silenzi. A voi che siete atti alla fatica ed all’Amore, allo sport ed alla contemplazione. A voi che amate il canto ed i profumi, le feste e l’eleganza, l’arte e la liturgia… A voi, ragazzi, affido l’Illusione. Giocate, e giocate contro: non morirete. A voi adulti, lavoratori e lavoratrici, papà e mamme. Adulti disillusi, abbiate la Fede di illudervi ancora. Per i figli. Perché l’Illusione è una speranza senza meta, ma è la Fede senza la quale non si raggiunge nessuna meta. A voi anziani, Sacerdoti della Cultura, Principi della Saggezza. Non perdete la vostra nobiltà. Voi soltanto siete gli eredi. E’ questo che amo in voi. Giocate con i bambini, discutete con i giovani, pacificate gli adulti. ….solo la Vita e l’Illusione sono sacre. Il resto appartiene alla morte." (don Giuseppe Rassello Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 8 Inviato da
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Inviato da Anonimo Ora
che si è pentito pure il camorrista capoclan della Sanità, Misso,
non gli si potrebbe chiedere se "ricorda" qualcosa a proposito
della squallida diffamazione di don Rassello? ________________________________________ Messaggio
N°341 del 03-06-2007 - 23:12 Federico Salvatore ad Apocalypse Show - Vietato Funari Essere napoletano...STANCA! Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 0 ________________________________________ Messaggio
N°330 del 27-05-2007 - 21:22 Ci rivedremo, Aniello! Bando ai
coccodrilli ed ai necrologi! Lasciamo queste ipocrite formalità
all’omaggio per i “personaggi illustri” dei quali Napoli pullula,
eterei fantasmi di icone ancor prima della transumanza in quei
verdi pascoli del Cielo… Per noi, ricordare Aniello De Lucia,
non implica declinare le sue qualità come d’uso tribale: oggi,
all’imperfetto… era…aveva…diceva; domani, al participio passato…
è stato…ha fatto…eccetera…; dopodomani, al passato remoto.. “Ei
fu”, come per Napoleone Bonaparte… No, quest’onta non la subirà
il nostro carissimo amico, tenero "burbero benefico", semplicemente
perché Aniello De Lucia ha una personalità talmente forte che
ha riempito con la sua presenza, i suoi monologhi, la sua lealtà,
la sua lucida rabbia, l’azione… i giorni della nostra vita che
vanno dal momento in cui l’abbiamo incontrato sul terreno dell’Identità
fino… al lontano futuro dei nostri giorni; il tempo che metteremo
per apprendere consapevolmente e metabolizzare con maturità tutti
gli insegnamenti di vita che ci ha generosamente regalato. Non
stiamo neppure qui a chiederci se, ipocritamente,si sigillerà
con una lapide il fascicolo della sua vita con la solita iscrizione
di circostanza scolpita da un annoiato scalpellino…PADRE ESEMPLARE….
MARITO CORTESE…. GRANDE UFF… PUFF…e MISERERE, perché Aniello non
è certo persona destinata alla banalità di una LAPIDE salvacoscienza
altrui, essendo stato svezzato a suon di LAPIDAZIONI, spesso,
dai colleghi di quel partito politico scomodo – che non esiste
più – poi, nella normale prassi individualista che distingue i
meridionali, ancor più spesso, è stato il Cimabue di tanti ingrati,
piccoli e scalpitanti Giotto che, pur essendosi impratichiti nella
tecnica della “O” perfetta…ma circoncisa, purtroppo, solo con
l’ausilio del bicchiere, si sono sentiti tre spanne sopra il cielo,
superiori al maestro, alla stregua di politicanti appena eletti
nel consiglio.... di un qualsiasi "club di Topolino". Aniello,
ci ha lasciato temporaneamente poche ore fa… controvoglia e…neppure
informato dei fatti metafisici cui stava andando inconsapevolmente
incontro… lui, che da poco tempo aveva ritrovato una nuova scintilla
di felicità e di entusiasmo per la vita e che sognava di trasferirsi
da Napoli sul Lago di Como, per dimenticare, per non più vedere
l’aberrazione di Napoli e dei napoletani… nei quali non riusciva
più ad identificarsi, soffrendo disperatamente ma virilmente,
stoicamente, con la rabbia che monta come la panna in chi si sente
defraudato dei suoi ideali, della Dignità Umana... di chi è costretto
ad assistere impotente all’esasperazione della sacra Intimità
in squallido Esibizionismo. Non ha nemmeno ancora imparato, Aniello,
a connettersi ad internet, per pubblicare i suoi coloriti interventi,
i suoi monologhi, le sue tesi politiche, per organizzare la rete
di contatti di un movimento politico meridionalista sognato assieme,
del quale, senza dubbio, sarebbe stato l’unico possibile leader
carismatico… Non vedrà la fioritura del basilico, del pomodorino
a piennolo del Vesuvio, del peperoncino... trapiantati in quell'accogliente
giardinetto di un'anonima casina sul lago di Como; continuerà,
però, a percepirne gli intensi profumi identitari e chi, lassù
al Nord ha adottato queste sue bandiere, le custodirà come reliquie!...
Non abbiamo fatto a tempo, neppure ad assaggiare i suoi gnocchi
alla sorrentina, le sue linguine con gli scampi… a vederci finalmente
una sera in trattoria a Soccavo, per una seratina in libertà,
lontani dalla quotidianità opprimente… magari accompagnati da
uno “schitarratore” di fortuna, per canti goliardici e canzoni
napoletane, scambi di ricette di cucina… magari, satolli, per
un “Prosit” alla destra di un tempo, quella sociale, che confonde
facilmente gli Aniello De Lucia ai comunisti più a sinistra della
sinistra…anche questi ormai defunti… con Peppone e don Camillo,
con il buonsenso e l’ilarità malinconica di Guareschi… e, proprio
come un personaggio di Guareschi, l’avvocato Aniello de Lucia,
per una banale “ernia” di routine da operare nell’ospedale pubblico
napoletano per eccellenza… di malasanità, ha dovuto – chissà se
se ne è reso conto – dire addio ai suoi sogni, ai suoi progetti,
al suo “luciano” di fiducia al mercato del pesce, ai week-end
a Como, al computer ancora da connettere, al telefono rovente
di casa sua, ai quaquaraquà presso i quali continuava a sprecare
gentilezze, fiato e docenze, per subirne il sorpasso in società,
alla vecchia madre che assisteva amorevolmente per renderle meno
doloroso quel tramonto che, incredibilmente, è calato nonostante
l’ora legale, con troppo anticipo, solo su di lui, per una perfida
ironia della sorte. Aniello De Lucia? PRESENTE! Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 4 Inviato da
terranuova0 _____________________________________ Inviato da
Anonimo ______________________________________ Inviato da
Anonimo ________________________________________ Inviato da
Anonimo __________________________________________ Messaggio
N°329 del 27-05-2007 - 11:57 Forma
mentis dei meridionali all'estero. Prendere esempio. CHICAGO: IL SENATORE RENATO TURANO PRONTO AD ABBANDONARE LA MAGGIORANZA. L’Italia dei partiti è giunta al capolinea, un sistema che sta collassando su se stesso e che negli anni ha prodotto la disgregazione delle famiglie e la perdita dei valori. Una libertà che è divenuta libertinaggio commutata dall’indotto dell’ingordigia e dall’incoscienza politica divenuta “sistema”, quel sistema che genera conflitti tra istituzioni ed insicurezza nelle generazioni verso il proprio futuro. Si vuole partire da quelle fasce tricolori dei sindaci trascinate nel fango dagli strattoni della polizia che difendevano il proprio territorio dagli abusi di una conseguenza politica durata quasi un ventennio, la spazzatura in Campania, e dal riportare integralmente le parole del senatore Renato Turano, eletto nella circoscrizione del Nord America, tratte da un’intervista rilasciata al capo della comunicazione della Columbus di NY, il giornalista-regista, Pino Tordiglione: “Quando si arriva allo scontro tra le Istituzioni significa che l’assetto democratico di un Paese sta crollando e con esso cessano di battere il cuore della libertà e le regole che la sostengono. Oggi la gente non si sente più rappresentata e protetta da nessuno. Porto come esempio il sistema del mio Paese, gli Stati Uniti, dove i parlamentari o deputati sono chiamati “rappresentatives” ovvero rappresentati della gente e dei loro bisogni, vengono eletti nelle circoscrizioni dove risiedono e rendono conto ai cittadini del proprio operato, da questo si determina la proficuità o non del proprio mandato, promossi o bocciati. In Italia c’è un sistema elettorale, a mio avviso “incostituzionale” o meglio, “fuorilegge”, non si vota per il rappresentante di questa o quella zona che senti vicino o tuo, ma per il “partito” che lo rappresenta così l’elettore viene privato della rappresentatività territoriale, culturale ed anche ideologica di un’area; non si spiega, faccio un esempio, come D’Alema sia eletto a Gallipoli o Gasparre in Calabria, cosa c’entrino loro con quel territorio?, lascio a voi la risposta!, non si spiega neppure il perché i parlamentari in aula non votino secondo coscienza ma per il partito che li ha eletti. E’ inconcepibile che i partiti abbiano o continuino a candidare persone che hanno avuto ed hanno problemi con la giustizia, con la droga, o siano di facili costumi oppure mercificano le proprie candidature a suon di quattrini. Tutto questo è assolutamente inconcepibile in un Paese “civile”; le istituzioni sono fatte di “uomini”, quando l’uomo degenera anch’esse degenerano conducendo la società civile verso lo sfascio. Il mio impegno è che si approvi urgentemente una nuova legge elettorale fatta per la gente e con la gente, che parta dal basso, un sistema chiaro e trasparente che tuteli il cittadino nella scelta del proprio portavoce sotto il profilo sia della rappresentatività territoriale che del valore morale ed etico. Non assurgo a moralista ma ritengo che l’Italia abbia bisogno di una sterzata epocale, che ricostituisca le “regole certe”, “uguali per tutti”, attraverso una nuova “costituente” che dia alla gente la voce, le regole e “garantisca servizi affidabili ai cittadini” nonché restituisca loro l’orgoglio e la fierezza di sentirsi italiani, questo sarà – conclude Turano- il mio impegno come senatore della repubblica eletto all’estero, negli Stati Uniti, un Paese che fonda la propria democrazia attraverso regole forti e certe, per questo sono pronto ad abbandonare questa maggioranza sapendo che la mia scelta sarà dettata dalla mia coscienza e non dai partiti.” Inviato da: vocedimegaride Trackback: 0 - Commenti: 1 Inviato da
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N°269 del 17-04-2007 - 15:28 'O jettatore
Chi non ha mai sentito parlare di iettatura? E chi non ha mai avuto un moto di timore o di fastidio nell’incontrare lo sguardo, vagamente sinistro e malinconico, dell’individuo che considera iettatore? La iettatura è una parola napoletana che deriva dal latino iactare, gettare (il malocchio) ma resta una credenza antichissima, non soltanto accettata dalla regione d’Italia che alcuni definiscono “ignorante e terrona”, bensì in ogni tempo e in ogni paese del mondo. In molti musei si possono ancora ammirare amuleti egizi, babilonesi, greci o romani, cinesi o giapponesi, atti a proteggere dallo sguardo malevolo e potente di colui che, consapevolmente o meno, ci vuole male. Buona parte di tali oggetti scaramantici ha forma appuntita e lunga, come i corni (chi non ne ha mai indossato uno?), i chiodi, la manina chiusa che presenta solo l’indice e il mignolo eretto, il ferro di cavallo, la lucciola e così via. La forma appuntita è però quella che più garantisce la protezione, sia perché la punta attrae le energie cosmiche facendole scaricare su di sé - basti pensare al parafulmine - sia perché è un simbolo fallico, quindi in analogia con la fertilità e con la nascita. Benché la iettatura venga sovente considerata una forma di superstizione e di ignoranza, molti sono pronti a giurare che il fenomeno è reale e, nel contempo, a raccontare episodi incredibili, sempre particolarmente incresciosi, sopravvenuti poco tempo dopo l’incontro col malcapitato che gode fama di iettatore. Ecco perché, a parte amuleti e portafortuna vari, vi è anche tutta una serie di scongiuri che servono a neutralizzare le nefaste influenze di chi, a torto o a ragione, ha la ventura di portare disgrazia al prossimo. Il famoso scioglilingua napoletano: “Occhio, malocchio, corno, bicorno, aglio, fravaglio, fattura che non quaglia, ” è una filastrocca che il popolino garantisce valida grazie al suono cantilenante che può neutralizzare il danno d’uno sguardo capace di avvizzire in un fiat una rosa in boccio. Ed è tanto connaturata nei semplici la tradizione dello scongiuro che ancora oggi, in chiesa, è facile vedere una popolana che, dopo aver intinto nell’acqua santa la mano destra, si fa il segno della croce e poi si bacia l’indice destro piegato ad uncino. L’implicito riferimento sessuale dello scongiuro si spiega con la diffusa credenza che tutti coloro, o tutte le cose, che si trovano in una fase di vita in sboccio, risveglino invidie ed hanno quindi bisogno di essere protette; ecco perché la tradizione popolare attribuisce anche alle vecchie, oramai sterili, e ai preti, che hanno fatto voto di castità, il titolo di menagramo potenzialmente capaci di provocare persino la siccità nei campi e la scarsezza del raccolto.In base a questa teoria, si debbono riguardare particolarmente dal malocchio gli innamorati, le donne incinte, i bambini e gli agricoltori che vivono dei prodotti della terra perché lo iettatore provoca dovunque sterilità e morte. La tradizione, oltre che all’uomo, attribuisce anche ad alcuni animali la capacità di portare male, come il gatto nero, il gufo o la civetta, animali notturni la cui voce lugubre sarebbe annunciatrice di morte. Ma che aspetto ha lo iettatore, quest’individuo dalla fama così sinistra? Lo iettatore tipico è magro, di colorito giallastro, naso affilato o adunco, sguardo sfuggente, occhi di colore indefinibile. Non è sposato (o non è sposata) e non ha figli. Talvolta ha un visibile difetto fisico che imbruttisce, in particolare se coinvolge lo sguardo, perché il “diverso” ha sempre provocato diffidenza e paura. Poiché sono numerosissimi gli individui che attribuiscono una sorta di malaugurio a persone o cose che, subito dopo averle incontrate sembrano aver scatenato avvenimenti sgradevoli o penosi, alcuni studiosi, costretti ad accettare la realtà del fenomeno, ne spiegano l’effetto malefico con una qualche energia sconosciuta emessa dallo iettatore, nociva per chi lo accosta. Altri invece, non potendo smentire il fatto, lo giustificano con la sincronicità yunghiana, insomma con qualcosa che sembra esercitare un’influenza su un’altra soltanto grazie alla peculiarità di presentarsi qualche momento prima della seconda, senza alcun rapporto di causa-effetto. Oltre alla iettatura vi è pure il maleficio, parola che proviene anch’essa dal latino, “malum facere”, e che intende la possibilità di provocare il male con l’ausilio di forze demoniache o soltanto superiori all’uomo. Maleficio o fattura possono venir considerati sinonimi giacché la volontà di nuocere viene attuata attraverso particolari suoni, parole, simboli, rituali o oggetti, come candele o bamboline di cera usate da sedicenti streghe e stregoni, naturalmente previo lauto compenso, per nuocere o legare il prossimo. Ecco quindi le fatture d’amore, per ottenere con la magia chi non ci ama, o per separare, sempre con la magia, una persona che ne ama un’altra, ed ecco ancora i malefici o le fatture ostili, allo scopo di danneggiare la salute o la posizione sociale di chi odiamo o, in ultimo, la terribile (sul piano morale) fattura a morte, per eliminare fisicamente chi avversiamo. Per difenderci da questo pericoloso attacco di forze invisibili, se non ci siamo inutilmente suggestionati, non sarà più sufficiente lo scioglilingua napoletano o l’amuleto ma occorre l’acqua santa, il crocifisso, la medaglietta della Vergine Maria e, nei casi eccezionali, il mago o l’esorcista capaci di togliere la fattura. Benché nella maggioranza dei casi gli individui che si dichiarano capaci di fare o togliere malefici siano semplici millantatori o esaltati, in realtà il fenomeno esiste, e per togliere la fattura occorre anche distruggere - ovviamente dopo averli ritrovati - gli oggetti utilizzati per nuocere, come ad esempio il limone o la patata trafitta da spilli, la bambolina di cera, gli intrecci di piume o gli spaghi annodati e nascosti nelle abitazioni dei malcapitati. Però, se ci si vuol proteggere da qualsiasi influenza negativa esercitata dagli altri, occorre per prima cosa non aver paura, perché il timore indebolisce i nostri poteri di difesa fisici e mentali. Chi assume invece atteggiamenti positivi e fiduciosi verso la vita e verso il prossimo non sa che così forma attorno a sé una barriera invisibile ma efficacissima contro ogni negatività, accidentale o intenzionale. Indipendentemente dallo iettatore, pare che esistano persone che risultano biologicamente tossiche per alcune altre; potrebbero essere queste a spiegare la fama di iettatrici? Ad esempio, alcuni casi di malessere, febbriciattola, depressione, apatia, da alcuni medici sbrigativamente definiti malattie da virus stagionali, da altri sono state poste in relazione con gli effetti del malocchio. Insomma qualche medico più sospettoso è arrivato a notare che le infezioni da virus molto spesso assomigliano agli effetti provocati dal cosiddetto iettatore. Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 0 ________________________________________ Messaggio
N°230 del 31-03-2007 - 13:07 Antonio e gli amori dispersi
Strana, questa
città di Napoli, seduta sfinita sugli allori di una lontana “età
dell’oro”, priva di quella sua melodiosa voce di quand’era regina
dell’opera e cantava la gioiosa Creazione, a cominciare dal mare
a finire alle stelle sul Mezzogiorno; di quando, aggredita e offesa
urlava la sua rabbia e il suo riscatto, con fiato possente da
scugnizzo vesuvino... Ora è muta, non ha reazioni, ne’ al ricordo
dell’età perduta ne’ alla violenza del presente… Strani, i napoletani,
portatori sani di Genio per tutto il mondo; ora, come la città,
lobotomizzati: malinconici, distratti. Assenti. Napoli estranea
a se stessa. Estranea all’Amore, sì, ma anche all’Odio, vuota
alla Bellezza… ma anche all’Orrore. Tiepida. Amorfa. Non più tufo
giallo scaldato di sole millenario; marmo gelido, come quello
delle lapidi ai caduti d’ogni tempo che provoca persino fastidio
rievocare. Napoli: “Una traccia d’amore disperso”, come i silenziosi
umani amori incompiuti, sprecati, incollati come le figurine Panini
sull’album da collezionismo dell’Incomunicabilità che "divide
et impera"; asettico “galateo” del genere umano, Bibbia, epilogo
dell’Apocalisse di san Giovanni. Napoli strattonata, sfruttata
da vecchi ipocriti soloni nei vetusti “salotti buoni”, da giovani
orde di vandali “strascinata” per la folta chioma turchina nel
fango. Aveva i mille volti dell’artista, dell’amante, della popolana,
della principessa. Era artista, amante, plebea e regale! Erano
passionali, appassionati, emotivi ed estroversi… i napoletani;
quelli che scrivevano e si vestivano dell'“ammore” … con due “m”
rafforzative dell’istinto atavico; ora, dicono “amo’”, tralasciando
di pronunziare la pretenziosa nota musicale del “re” che, contrariamente
al gioioso “do”, nell'esoterismo della simbolica scala musicale
napoletana, propria alla matematica celeste ch’è l’Armonia, corrisponde
alla tristezza, all’insoluto da definire, all’impegno da assolvere…
e scrivono d’amo’, con tutti gli strumenti di comunicazione che
la tecnologia ha messo a disposizione dopo il pennino e l’inchiostro…
insulsi e rattrappiti sms sull'avaro schermo di un telefono portatile,
senza enfasi, senza anima, e con tante dure “k”, insulse “w”…
insignificanti “h”… dove la piena e caldo-umida parola BACIO è
codificata in un tagliente schiaffo: smack!… Una traccia d’amore
disperso, Napoli e la sua gente… come gli amori imploranti e masochisticamente
silenti, depennati ma non cancellati, dissacrati e impotenti,
anestetizzati eppure incombenti. Come le “Quattordici tracce di
amore
disperso” ripercorse malinconicamente da Antonio Mocciola,
best-seller della “Libreria degli Inediti” de Il Pozzo e il Pendolo.
“Amore disperso, vale a dire amore sprecato. Oppure non più trovato.
Forme deviate di sentimento, parole non dette, sguardi evitati,
incontri mancati. Amore scorretto. I personaggi non hanno nome,
non lo meritano. L’avranno una volta diventati soggetti amanti.
Ma non lo diverranno mai. Persi nel dubbio, scelgono invariabilmente
la soluzione sbagliata. Si muovono in spazi non identificabili,
senza colori, senza stagioni. Ma in loro c’è una vita rappresa,
che chiede di esplodere, di fare rumore. È tutto un domare, un
annacquare, un tacitare. La paura di dare, e soprattutto di avere.
E dunque il silenzio, ronzante, acuto come un lontano grido di
cormorani. Si sente ma non si vede. Si avverte ma non si capisce.
E si lascia morire. Desolati, ma mai drammatici. Questi amori
non raggiungono l’idillio del dramma. È un corto circuito sentimentale,
senza scampo. E se scampo c’è, non è mai attraverso l’Altro. E’
nella rinuncia, nel ritorno a sé , un sé qualunque. Amore che
non parla, non ha fiato neanche per sussurrare, si consegna agli
eventi e li guarda impassibile, pettinando il suo dolore, accudendolo
con distacco come un dono da riconsegnare. Non amare troppo per
non soffrire, distillando la pena. Amore intenso, che nasce e
muore senza lasciare tracce, orme labili su neve marcia. Amore
disperso.”. E’ forte e chiara una sorta di ribellione nella disperata,
quasi urlata, sentenza di giudizio che questo giovanissimo autore
napoletano emette sull’incapacità di “essere” e sul degrado umano
che si stagliano, nutrendosene, sullo sfondo asfittico di una
città moribonda, di una società decadente… di una civiltà caduta
qual è anche la sua, la nostra, Napoli. Può apparire una velleità
artistica, un sottile gioco di prestigio affabulatorio persino
singolare - ma non lo è - che ognuno dei quattordici brevi racconti
sull’amore disperso si chiuda con un ermetismo, quasi un’ambiguità
psicologica che costringe il lettore a definire, secondo la propria
indole, il proprio sentire, il vissuto effettivo dei personaggi
e la trama medesima della storia, che l’autore si limita crudamente
a narrare senza parzialità, senza commento personale. Ed è proprio
in questa sottile arte non logorroica del narrare, sintetica,
senza orpelli, offerta come pittura di trasparente acquerello,
che invece si avverte il colore, la poesia e la bellezza che albergano
nell’anima dell’autore, così come il suo urlo di dolore si avverte
stemperato dignitosamente in una dolce malinconia che gli è sapiente
compagna. ( QUATTORDICI TRACCE DI AMORE DISPERSO - Autore: Antonio
Mocciola -Pagine:83 Genere: Narrativa - Data di stampa: novembre
2006 - In vendita presso: Libreria degli Inediti, c/o Teatro “Il
pozzo e il pendolo”, piazza San Domenico Maggiore, 3 – Napoli)
Antonio Mocciola nasce a Napoli il 7 maggio 1973, e dall'età di
tre anni comincia ad usare penne, matite e pastelli. Siano disegni,
racconti, canzoni o poesia, la scrittura è sempre stata la sua
grande passione, malgrado gli studi giuridici. Dopo alcuni incoraggianti
riconoscimenti in ambito letterario per alcune piccole pubblicazioni,
nel 2003 entra a far parte della testata multimediale "Il Brigante",
di cui in breve tempo diventa una delle firme più apprezzate nonché
caporedattore. Divenuto giornalista pubblicista, pubblica nel
novembre 2006 la sua prima raccolta di racconti, "Quattordici
tracce di amore disperso", che in brevissimo tempo s'impone nella
classifica della Libreria degli Inediti de "Il Pozzo e il pendolo",
ottenendo anche numerose, benevole recensioni tra stampa, siti
web e blog. Nel 2007 scrive, con Maria Antonietta Sisini, un monologo
teatrale per Piera Degli Esposti sulla vita di Giuni Russo, di
cui è biografo autorizzato, in scena al Festival Internazionale
del Cinema di Torino previsto dal 19 al 26 aprile. Attualmente
collabora con il teatro "Il Primo" di Napoli per la rassegna "Ambigua"
e con "La Vallisa" di Bari per l'organizzazione di eventi in memoria
di Giuni Russo. Per l'autunno è prevista la pubblicazione di una
nuova raccolta di racconti, "Le carezze dei lapicidi". Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 4 Inviato
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N°142 del 30-01-2007 - 22:32 “NAPOLI CHE CANTA” L'ULTIMO CANTO DI UNA SIRENA C’è una parola di cui troppo spesso si abusa, svilendone il significato e la portata emotiva. Questa parola è: miracolo. La musica alle volte è più potente della vita umana, e ha una forza superiore ed insondabile che va oltre il respiro, il battito, gli umori prettamente terreni. “Napoli che canta”, l’ultimo lavoro in vita di Giuni Russo, è un miracolo. Intanto perché le previsioni di vita della cantante palermitana, colpita da un tumore all’inizio del 2000, non le davano che pochi mesi. E poi perché il ritrovamento dell’omonimo film di Roberto Roberti Leone, padre del più noto Sergio, ha davvero qualcosa di magico. Confinato per decenni nei magazzini di uno studio americano, “Napoli che canta”, piccola perla muta ambientata nella Napoli del ventennio miserabile ed emigrante, uscì dall’oblio a cui l’aveva destinata la censura fascista, poco incline a tollerare immagini perdenti dell’Italia giovane e colonialista. Ma a quel film mancava la parola, anzi la Voce. E quando Paolo Cerchi Usai, direttore della George Eastman House, completò il restauro della pellicola, decise di affidare il commento musicale alla sua compatriota Giuni Russo, che con forza e volontà combatteva il suo male riuscendo ad inanellare, nel frattempo, una trionfale performance sanremese e rari, indimenticabili concerti nei luoghi più prestigiosi d’Italia. Era il 2003, per i medici Giuni sarebbe già dovuta essere Altrove. “Napoli che canta” omaggia Napoli, la sua solarità, la sua penombra, i suoi capricci e la sua voluttuosa vitalità. Tra i tanti omaggi che artisti non napoletani hanno reso alla città del sole, questo è sicuramente uno dei più fulgidi per spessore artistico ed umano. Non solo per la dizione quasi perfetta, non solo per la vocalità insuperabile, e neanche per una certa “fratellanza sudista” che accomuna la cantante palermitana (ma di nonno partenopeo) a Napoli. E’ che in quest’opera c’è un’Anima; un’ Anima che aveva già preso contatto con l’Eterno, e che ha tradotto in musica un messaggio superiore. Chi ha un certo tipo di sensibilità non ha difficoltà a sintonizzarsi con queste sensazioni, ma anche chi non ce l’ha può trovare in queste 30 tracce, e nelle immagini del film, diversi motivi di soddisfazione. Intanto perché si tratta di una vera e propria “suite”, composta dalla stessa Giuni con l’inseparabile Maria Antonietta Sisini, e già questo basterebbe per incuriosire un pubblico anestetizzato da prodotti industriali e tutti uguali. Ma come non apprezzare il ripescaggio di pezzi splendidi e poco noti come “Sotto ‘e cancelle” e “Serenatella a mare”, la reinterpretazione di classici come “Torna a Surriento” e “’O sole mio”, le garbate incursioni elettroniche che nulla tolgono alla classicità dell’opera (già sperimentate con il prezioso “A casa di Ida Rubistein”, L’Ottava, 1988), oppure le toccanti “O vos omnes” e “A cchiù bella”, che Giuni presta dal suo repertorio per impreziosire un disco già così intenso. E proprio “’A cchiù bella”, tratta da “’A livella” di Totò, è stata l’ultima composizione di Giuni, l’ultimo atto d’amore. Ma c’è un momento, inatteso e folgorante, che prende il cuore e lo stomaco. E’ “Invocazione”, una trama di vocalizzi di rara, struggente intensità, composta dal maestro Fedrigotti e dalla stessa Giuni. C’è posto anche per due “ghost track”, la leggiadra “Mediterranea” e l’orientale “Sakura”, eseguite dal vivo al Teatro Zancanaro di Sacile, in Friuli, il 18 ottobre 2003 in occasione del Festival Internazionale del Cinema Muto. Fu l’ultima, grandiosa, esibizione di Giuni, una “standing ovation” indimenticabile per chi c’era, ma ben testimoniata anche dalle immagini del Dvd. Quanto Napoli abbia saputo apprezzare quest’estremo omaggio di una grande artista non è dato sapere. Nel 2004 Giuni avrebbe dovuto esibirsi nel Chiostro di Santa Chiara, e mai “location” sarebbe stata più adatta. Ma, unitamente al Festival di Taormina, la tappa fu cancellata per colpa di una salute sempre meno salda. Resta, preziosa e immutabile, un piccolo grande capolavoro. L’amore, ricambiato, della gente ha accompagnato la vita e la carriera di Giuni Russo. A compensare questo affetto a volte persino morboso, le Istituzioni Culturali hanno sempre avuto difficoltà a riconoscere il valore artistico di Giuni, e di altri artisti meno catalogabili, meno addomesticabili alle turpi leggi di mercato. In una città che mastica con la stessa apatia delitti e canzonacce neo(?)melodiche, Giuni ha offerto un’oasi di purezza acustica, di magia rarefatta, di fulgida poesia. Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 3 Inviato da Anonimo ------------------------------------------------------------------ Inviato da Anonimo --------------------------------------------------------------------- Inviato da Anonimo -------------------------------------------------------- Messaggio
N°104 del 02-01-2007 - 12:37 Maria
Nazionale voce dell'Anima
Nel
tentativo di affrontare nuovi percorsi fuori dalle consuete coordinate,
si riesce nella scialba operazione di creare senza dire, indicare
senza rivelare. Dura la lunga stagione dell’assenza di costruttivi
linguaggi poetico-musicali. Di “nuovo” ce n’è a sbafo, ma è un
nuovo che non catalizza, non lascia alcun segno, se non ibrido,
mancante di idee smaglianti. Ci sono quelli che oggi passano per
innovatori e che sono soltanto dei contraffattori, degli adulteratori.
Il mercato ha stracciato la cultura e ai poeti si sono sostituiti
i parolai, gli strilloni, gl’imbonitori. Impiegano tempo e fatiche
per imbroccare una sequela di parole e, quando il prodotto è pronto
per il gran balzo, si presentano in TV o alla piazza e lo danno
in pasto alle folle per niente educate. Il successo dei furbastri
di turno è assicurato. C’è però chi usa gli strumenti tradizionali
capaci di farci navigare verso mondi fascinosi. Chi adotta storie
semplici per il nostro ascolto interiore. Chi protesta la propria
prorompente, indomita umanità. Chi eleva la poesia e la bellezza
del canto contro la decomposizione della parola battendosi anche
contro il tempo e strambe mode. Il filone della canzone classica
napoletana ancora esiste e resiste. La ricerca di artisti che
continuano a far proprie antiche storie condite di nuovi linguaggi,
è realtà palese. Ha ancora un senso cantare l’incanto di un tramonto,
il mistero silente della natura, le sensazioni profonde di un
idillio amoroso? Per Maria Nazionale lo ha. Dotata particolarmente
di voce, di bella voce dalle coloriture arabesche, provvista di
una corposa qualità interpretativa, con la sua fascinosa presenza
scenica esprime una originalità coinvolgente. La propria presenza
emozionale del mondo è di profondo spessore. La sfida con il reale
non appartiene tanto alla sfera del vedere quanto a quella del
sentire. La forza della sua sensibilità, del suo esprimersi col
cuore più che con la mente, conquistano, intrigano, avvincono.
Maria Nazionale l’abbiamo incontrata lontano dai suoi numerosi
impegni artistici, in un soleggiato pomeriggio invernale. Nel
silenzio assordante della natura amica, le abbiamo posto delle
domande sospese in una gioiosa dilazione del tempo. Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 0 --------------------------------------------------------------- Tags: Personaggi Nel
fantastico mondo dei Puffi di Marina Salvadore Mago
Garga(scara)mella e il Pallonio 210
Iniziamo a credere, secondo le attuali piste seguite da Scotland Yard, dalle quali il mitomane è stato depennato, che Scaramella abbia avuto solo l’opportunità di trovarsi nel posto giusto al momento giusto e gli riconosciamo pure la dignità del rischio corso e della successiva preoccupazione... ma niente di più, fino a quando resterà non identificabile, perché – e dovrebbe saperlo bene, quale napoletano - “ccà nisciuno è fesso!”. Possiamo aggiungere che a puro livello fisiognomico ci ricorda un po' Mastella, niente di più. La nostra redazione ha provato a rintracciarlo ma la segreteria telefonica di Telekom Serbia ci avvisava: "L'utente chiamato non è al momento radio attivo". a parte gli scherzi, ciò che davvero ci fa inorridire è la pochezza dei nostri governanti che continuano ad imbottire di costosissimo ripieno merceologicamente e organoletticamente sconosciuto, le auguste panze di grassi tacchini per le loro personali feste del “ringraziamento agli elettori”, straripando in autorevolissime nonché delicatissime Commissioni Ministeriali , dietro faraonici compensi, soggetti da operetta o eccezionali malfattori, ai quali non chiedono neanche la carta d’identità, visto che quella igienica la passa gratis il Palazzo. Il caso Scaramella è emblematico: nessuno lo conosce, lui e la sua fantomatica “ecologista” ECCP che avrebbe dovuto recuperare addirittura scorie radioattive sovietiche nel Golfo di Napoli (007 non è “nisciuno”!) senza che neppure Green Peace ne sapesse nulla… non lo conoscono i celebri atenei presso cui avrebbe insegnato… non lo conoscono i Paesi presso cui sarebbe stato “consigliere giuridico e diplomatico” per i governi italiani… Fu già denunciato per millantato credito e già, una volta, dichiarò d'essere stato il bersaglio di un attentato di stampo camorrista, da parte di inidentificabile clan... Boh! Ma la scelta del personaggio "originale", nella difficoltà di reperire Personalità, è normale prassi presso il Parlamento dei Puffi tricolore, che continua ad inserire nelle segreterie della presidenza del “Coniglio” e nelle varie Commissioni anche ex brigatisti rossi; non ultima la Ronconi compagna di Segio! Certi organismi e commissioni anche serie, quale la Mitrokhin, ad esempio, annoverano peraltro tra i consulenti o i membri autorevoli figure di un certo carisma; ricordiamo, uno per tutti, il procuratore Agostino Cordova che voleva seriamente ripulire Napoli ma che, per troppa solerzia – come narra la leggenda popolare – fu da Napoli allontanato, poiché pare che avesse ficcato il naso in certi affari poco “ecologici” della Dirigenza Partenopea. Ecco, non riusciamo a capire come mai, dopo aver ad ogni scandalo sollevato l'indignazione popolare, le autorità "serie" non intervengano almeno a prendere le debite distanze dai rejetti. Onestamente, spinti dalla Pietas rivolgiamo una prece per il riposo eterno di Litvnenko, la cui agonia in diretta ci ha umanamente scossi ma siamo anche indignati da questi fatti tutti ITALIANI che finiscono col ridicolizzare pure la tragedia della morte di un uomo. Si è perso il senso della misura, con il buonsenso e la dignità, terribilmente scaduto nella volgarità che qualifica il vero "italian style" ; quello più conosciuto al mondo, che va oltre "Il diavolo veste Prada" ... o Prodi?... Oh, no! Basta con altri arrovellamenti del gatto che si morde la coda. Pietà, pietà. Siamo esausti di misteri. inviato
da: vocedimegaride - Commenti: 0 |
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