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Messaggio N°508
Contrada:
l'altra campana
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N°508 19-12-2007 - 22:40
Tags: Storia-Miti-Eroi
Contrada:
l'altra campana
di Marina Salvadore
“Cari
amici - ci scriveva due giorni fa Gioacchino Basile - ecco il mio messaggio
al Presidente della Repubblica
http://it.youtube.com/watch?v=AzoyBASu5Uk
Vi prego di
farlo viaggiare più veloce della luce, verso quella verità che le iene
e gli sciacalli del potere vorrebbero negare ad ogni costo!”E quel documento
l’abbiamo visionato, trovandovi però un accenno velenoso al solito - e
SOLO - bersaglio italico, Bruno Contrada... che ci vede, invece, impegnati
in prima persona, con ogni mezzo, in una campagna di riabilitazione totale
della sua Dignità Umana e Professionale. Abbiamo quindi deciso di intervistare
a riguardo Gioacchino Basile; intervista che vi proponiamo per dovere
di cronaca ma che, tuttavia, nonostante l’ottimo lessico ed il seduttivo
stile tutto siculo del “dico-non dico”, non ci ha chiarito i motivi ne’
i fatti delle lagnanze e del terribile giudizio su Contrada che affiora,
senza mai dichiararsi, in quasi tutta la cortese e dotta esternazione
del nostro illustre ospite, al quale va comunque il ringraziamento della
redazione per averci regalato alcune pagine critiche di Storia Patria.
D)Egregio Basile, perchè ha un'opinione così cattiva di Bruno Contrada?
R) Carissima amica, in questo caso ho due sole certezze:
1) che lei è una carissima e bellissima persona; la sua voglia d'aiutare
chi è in gravissime difficoltà, le fà molto onore è fà capire anche a
chi non la conosce, quanta lealtà c'è dentro l'animo suo.
2) conosco solo di vista Bruno Contrada, di lui ebbi sempre notizie da
quel territorio strettamente collegato, alla mia vita, alle mie battaglie
contro "cosa nostra" ed "alle sue funzioni professionali" ed "amicali"
con i lerci criminali, svolte sempre a mio fondato avviso, in osservanza
alla sua lealtà "Istituzionale" . Di più, grazie ai miei quaderni a futura
memoria (novembre 1990) sò, al di là d'ogni ragionevole dubbio d'esser
stato suo oggetto d'attenzione attraverso una vile provocazione
D) Probabilmente, al servitore dello Stato fu imposto dalle Istituzioni
di occuparsi di lei... e con i soliti metodi artigianali che la "strategia"
poliziesca degli albori imponeva…
R) A mio fondato avviso, come ho già avuto modo
di spiegarLe, Bruno Contrada non fù mai un corrotto a disposizione di
“cosa nostra”. Egli fù invece, il principale anello debole delle Istituzioni,
che operò nell'interesse di quel potere “cosiddetto democratico” (sic.)
che in Sicilia, aveva
necessariamente bisogno, delle “funzioni regolatrici” di “cosa nostra”
per proteggersi dalla legge, quando quest'ultima trovava sulla sua strada
uomini onesti e valorosi che la incarnavano con dignità e nell'interesse
della Costituzione. Quando i “pentiti” cominciarono a parlare di Bruno
Contrada, non mi trovavo fra quelli che, nella “loro formulazione dei
fatti”, si trovava d'accordo, anzi. Da moltissimi anni sò come funziona,
quel fronte della menzogna politica e del crimine, e personalmente avevo
visto il Bruno Contrada, in amichevole convivenza, con gli accoliti criminali,
citati dai “pentiti”... Per capire, cosa accadeva, bisogna conoscere bene
l'infima e bassissima qualità culturale dei “pentiti” ed avere consapevolezza
che, i capi di “cosa nostra” lungo la loro viscida scala di potere, non
fanno mai sapere, nulla di vero e definitivo ai loro subalterni. In buona
sostanza, che Totò Riina aveva contatti con esponenti Istituzionali, potevano
anche saperlo sia i capi dei mandamenti che i loro sgherri più affidabili
ma, sulla qualità di quei rapporti, tutti loro potevano solo intuire e
quindi interpretare a loro modo ma, mai hanno saputo tutta la verità.
Chi ha dato dignità “alla consapevolezza progettuale” dei “pentiti” vestendola
di assoluta certezza , (forse anche agendo con la buona fede dell'utile
idiota) ha saziato la malafede di alcuni settori della Magistratura e
delle Istituzioni per fare largo,<< ai “protobugiardi” di Oscar Wilde>>
impegnati nella reinterpretazione Giudiziaria della Verità sulle stragi
dell'anno 1992. Quante volte abbiamo sentito dalle tv o letto nei giornali,
delle grandi delucidazioni fornite da rozzi “pentiti” con linguaggio da
laureati!!! (sic.) Quante volte partendo da un forse, da un potrebbe,
da un mio avviso, detti dai “pentiti” si sono riempite intere pagine di
giornali ed i contenitori della dis-informazione... Però mia cara amica,
la gente del Paese non ha mai sentito bene, la voce di quelli che, i Prodi,
i Mastella (compare del mafioso e del “pentito e poi Ministro della Giustizia!!!),
solo per fare alcuni semplici esempi, ed il nostro Presidente Napolitano,
vorrebbero non sentire mai... Bruno Contrada non è entrato in scena visibilmente
e direttamente, nella mia storia. Lo ha fatto in un momento importantissimo
a mezzo diretta telefonica, tramite una persona a lui fedelissima, al
di là d'ogni ragionevole dubbio. Ma, questo si saprà quando finalmente
l'onore del nostro Paese prevarrà sul silenzio.
D) Si tratta di un sentimento personale, il suo, che le impedisce di giudicare
a mente più serena TUTTO l'abominevole caso Contrada?...
R) Prima voglio precisare che, assolutamente non
ho nulla di personale contro Bruno Contrada la mia fede Cristiana è sempre
molto attiva e presente è m'aiuta costantemente a depurare l'animo mio,
dai risentimenti personali contro “quelli che hanno lavorato” indegnamente
contro di me, contro il diritto alla serenità della mia bellissima famiglia
e contro le mie patriottiche ragioni di siciliano e di cittadino Italiano.
Quando parlo di Bruno Contrada, parlo di chi, nel suo infernale ruolo,
a mio convinto avviso, contribuisce ancora oggi a garantire l'impunità,
di quegli “anelli concentreci” politici e Istituzionali che lo hanno tradito
per darlo in pasto alla reinterpretazione della verità. So per certo che
Bruno Contrada non dirà mai la verità per due ordini di motivi:
1) perchè non ha ricevuto nessun ordine scritto, ed è pienamente consapevole
che anche quei suoi stessi colleghi che durante i processi cercarono d'aiutarlo
nelle aule dei Tribunali, lo rinnegherebbero in una eventuale ma, mai
tardiva opera di Verità e Giustizia.;
2) non scordiamoci che, Bruno Contrada ha due figli... di cui uno sarebbe
uno stimato poliziotto... l'altro che è ospite dei miei quaderni a futura
memoria, fà l'avvocato.;
3) In ogni caso, la Verità che potrebbe emergere aggraverebbe inesorabilmente
la posizione giudiziaria di Bruno Contrada, che a quel punto dovrebbe
rispondere del reato di strage. In buona sostanza, come dicono i luridi
criminali “calati iuncù, cà passa la china”. Poi per quanto riguarda un
mio possibile astio personale, nei confronti di Bruno Contrada, bisogna
ricordarsi che, ben altri infami alti funzionari delle Istituzioni (Questori
e Prefetti) costruirono rozzamente e indegnamente, fin dagli anni 80,
le condizioni per attuare l'olocausto esistenziale, economico e politico
di un uomo, (lo scrivente) che “cosa nostra” non poteva eliminare per
motivi d'opportunità politica e sociale. Questi indegni, ripeto indegni,
non hanno mai dovuto rispondere di nulla perchè loro, non furono mai costretti
ad infognarsi nella palude: loro agivano indisturbati, dentro i tuguri
della Questura e della Prefettura di Palermo. Anzi, a mezzo di questa
intervista, mi piacerebbe cristianamente rivolgermi al Dottor Bruno Contrada
per invitarLo ad una riflessione di vera Fede Cristiana e di vero Patriottismo:<
Dottor Contrada, Lei sà meglio di me, come stanno le cose... sò che per
lei, nel caso attuasse quella definitiva rottura con il passato, che mette
a nudo le indegne convenienze, di quegli infami che ancora oggi potrebbero
imporsi al potere del nostro Paese, il peggio si manifesterebbe con maggiore
vigore e potrebbe non avere fine. Questo è un sistema che potrebbe anche
facilmente ucciderlo in carcere e/o vendicarsi anche suoi figli ma, oggi
quel sistema non è più forte come un decennio fa; ora è il tempo in cui
stà autoimplodendo con le sue marce contraddizioni. Dottor Bruno Contrada,
sbagliare è diverso dal tradire. La prego s'affidi a nostro Signore e
recuperi la Verità “sull'altare dei suoi errori”, di servitore dello Stato.
Lo faccia per i suoi figli e per la loro prole. Ma, sopra tutto, lo faccia
per amore Cristiano e contro tutte le nostre miserie umane. L’insolita
corrispondenza con Marina Salvadore, mi informa che il sistema carcerario
non ha alcuna pietà per Lei ed a Lei non riconosce nemmeno “i diritti
d'incompatibilità carceraria per gravi motivi di salute, che invece ha
riconosciuto fra gli altri, anche a quell'Antonino Pipitone, che Lei ben
conosce; quello che ha fatto uccidere la di lui figlia (Rosalia che ben
conoscevo seppur di vista) e che a mio fondatissimo avviso eseguendo gli
ordini, predispose il tutto in via D'Amelio. Dottor Contrada si convinca
del fatto che, non cederanno mai, nemmeno d'un millimetro. Non avranno
nessuna pietà. Sono troppi quelli che hanno paura di quella Verità, che
Lei compiendo un forte atto Cristiano e Patriottico a recupero “dei suoi
errori istituzionali ” potrebbe fare emergere anche nell'interesse della
sua coscienza Cristiana!
D) Perchè, vorrei capire, ai noti brigatisti rossi si offrono incarichi
istituzionali e non, alloggi e sostentamento; così, pure ai lerci criminali
mafiosi santificati da falsi pentimenti di convenienza... e Contrada si
becca il carcere duro, a 77 anni?
R) Quelli che hanno utilizzato in senso criminoso
le funzioni degli uomini delle Istituzioni, attraverso la più ruvida ipocrisia,
usano sempre tutte le macerie umane, in funzione della loro indegna convenienza
per disinnescare gli eventuali e consequenziali pericoli che potrebbero
concretizzarsi contro il loro indegno sistema. Con i brigatisti, si usa
il “buonismo di sinistra” per svuotare di forza emotiva, quelle rivoluzioni
del cazzo, che ancora oggi vedono tante giovani vite perdersi, dietro
quell'illusione rivoluzionaria che nel nostro seppur Paese di (....) non
ha motivo d'esistere. Nel nostro Paese, malgrado Prodi e Berlusconi, se
la gente lo vuole, c'è ancora spazio, per la Verità e per la Giustizia.
Ho conosciuto direttamente alcuni “pentiti”, alcuni di loro sono ospiti
“d'onore” nei miei quaderni a futura memoria; addirittura con il N 1 in
quei quaderni c'è Marco Favaloro, quello che accompagnò il suo capo Madonia
ad uccidere Libero Grassi. Loro, i lerci “pentiti” e quelli “leali” sono
serviti ai Magistrati onesti ed a quelli rozzamente omissivi; i “pentiti”
sono serviti anche a quel Giancarlo Caselli, che mi ha profondamente deluso...
Spero per Lui, per la sua coscienza e per il suo onore di Magistrato,
che i “rozzi errori” commessi dalla Procura di Palermo durante la sua
reggenza, siano avvenuti in buona fede.... Mi chiedo solo come mai, ancora
oggi pur sapendo che “i suoi errori” hanno danneggiato quella verità che
molto potrebbe far luce su via D'Amelio, Lui continua ad ergersi in qualità
di paladino della legge... questo è davvero troppo! Contrada è un'altra
cosa; Bruno Contrada è l'anello debole e deve pagare per tutti! Lui è
quello che il giorno dopo la strage di via D'Amelio, fù nominato coordinatore
di tutte le indagini per le stragi avvenute in quei giorni.... quell'incarico,
a mio fondato avviso, era stato dato a garanzia sia all'uomo delle Istituzioni
che a garanzia di “cosa nostra” subito dopo l'indegna, missione impossibile!
Voglio ricordare a chi legge che, quel Questore e quel Prefetto che “fecero
orecchie da mercante” anche a seguito delle reiterate e allarmate relazioni
degli addetti alla sicurezza di Paolo Borsellino, permettendo così l'attuazione
della strage, senza costituire alcun problema per i criminali, “furono
poi puniti” con gli avanzamenti in carriera; il Questore promosso a Roma
ed il Prefetto promosso a Firenze! Poi qualcosa cambiò, nella strategia
della gestione della Verità ed a lui , ed al suo servo Totò Riina, furono
serviti, il tradimento, le calde e vecchie “infamie” e le “vecchie verità”
dei “pentiti”, che affollavano le sale d'attesa di quelli, che sbagliando
in buona fede, da utili idioti, e/o agendo con determinato mandato politico-Istituzionale,
dovevano riscrivere urgentemente, quella verità che non convincerà mai
la gente onesta. Se vuole saper chi è l'uomo più pericoloso d'Italia,
per la mafia che ha il volto delle Istituzioni, le rispondo senza remore,
che quell'uomo è Bruno Contrada. Anzi, confermo che tutto questo, a mio
avviso convive con una grande e fortunosa anomalia.... Bruno Contrada
è ancora vivo!!!
D) La media statistica dei nostri migliori "Serpico" sotto processo o
in galera è altissima, tanto da caratterizzare come fenomeno tutto italiano
la cosa. Il difetto di costruzione di questa Italia incompiuta è forse
da addebitarsi al momento stesso della sua "creazione" risorgimentale
ed alla successiva revisione del 1948?
R) Bravissima, mia cara amica:E’ un modello antichissimo,
anche se oggi si è raffinato di molto. Bruno Contrada si sente giustamente
tradito perchè Lui sa, che altri, lo hanno tradito. Lui sa che quelli
che lo hanno tradito vivono indegnamente onori che non meritano. Il potere
politico Istituzionale li usa e lui si fece usare “pensando di fare il
bene del Paese” (sic.) Se va bene puoi poi diventare capo della Polizia,
se va male, diventi Bruno Contrada e “devi stare muto” perchè possono
fare di molto peggio! E’ un po' come ai leader politici; se fai il bravo
come Giulio Andreotti e ti lasci processare in santa pace, alla fine una
via d'uscita la trovano a qualunque costo... anche a costo di circoscrivere
le scorribande mafiose del Senatore ad epoca utile (sic.) alla prescrizione
del reato. Se invece “fai l'arrogante”, come Bettino Craxi, allora muori
in esilio.
D) Avrebbe mai immaginato di vedere il "compagno" Napolitano ospite alla
Casa Bianca, a suggellare rinnovata alleanza e complicità guerrafondaie
con Bush?
R) Quando all'età di 18 anni, (1967) entrai per
la prima volta dentro il Cantiere Navale di Palermo, per la prima volta
in vita mia sentii della gente parlare, di dignità umana e di libertà.
Quelli che mi parlavano di questi valori erano dei compagni Comunisti
che lavoravano alle dirette dipendenze dei Piaggio, padroni del cantiere
navale di Palermo; io lavoravo invece con la ditta Accomando Vincenzo,
servo di Michele Cavataio. Il nome del “fù compagno” Napolitano non ricorre
mai positivamente nei miei ricordi di militante Comunista, ne’ tanto meno
in quello dei compagni che poi abbandonai con l'ipocrita svolta di Achille
Occhetto, nella primavera del 1989. Napolitano era per noi “il migliorista”...
era il più assiduo corteggiatore di Bettino Craxi... eppure Bettino Craxi
è morto già da molti anni in disonorevole esilio, e lui Napolitano è il
nostro Presidente della Repubblica. Poi potremmo parlare di Nicola Mancino
e dei cento milioni al mese del Sisde, potremmo parlare di Giuliano Amato
e dei suoi “pizzini” a Bettino Craxi (sic.) ecc... ma, forse è meglio
sospendere i giudizi su tutti loro ed insistere sul movente proposto dallo
scrivente in ordine alla strage di via D'Amelio... i fatti insistono e
ci dicono, che al di là d'ogni ragionevole dubbio, la coda dell'infame
demonio si trova là.... Basta acchiapparla, con la fermezza e la determinazione
di chi ama veramente la Verità, la Giustizia e l'Onore del nostro Paese,
e verificare in piena trasparenza, se quella strage fù attuata per mandare
in scena quelle rozze omissioni della Procura di Palermo dell'anno 1992
che salvarono dalla catastrofe Giudiziaria Fincantieri e la filosofia
statalista dal volto Prodiano.
Inviato
da: vocedimegaride - Commenti: 3
riferimento
Inviato da Anonimo
il 20/12/07 @ 00:01
A
mio fondato avviso, come ho già avuto modo di spiegarLe, Bruno
Contrada non fù mai un corrotto a disposizione di “cosa nostra”.
Egli fù invece, il principale anello debole delle Istituzioni,
che operò nell'interesse di quel potere “cosiddetto democratico”
(sic.) che in Sicilia, <per imporre tutte le lordure criminose ed affaristiche
del consociativismo, andate in scena dalla fine degli anni 70 e fino al
19 luglio 1992>> aveva necessariamente bisogno, delle “funzioni
regolatrici” di “cosa nostra” per proteggersi dalla legge, quando quest'ultima
trovava sulla sua strada uomini onesti e valorosi che la incarnavano con
dignità e nell'interesse della Costituzione. Egregio Sig. Basile
mi può spiegare più "BANALMENTE" cosa intendeva
dire?
La ringrazio Mauro Caiano
________________________________
Inviato
da Anonimo
il 20/12/07 @ 00:21
Ed ancora: Quando parlo di Bruno Contrada, parlo
di chi, nel suo infernale ruolo, a mio convinto avviso, contribuisce ancora
oggi a garantire l'impunità, di quegli “anelli concentreci” politici
e Istituzionali che lo hanno tradito per darlo in pasto alla reinterpretazione
della verità. So per certo che Bruno Contrada non dirà mai
la verità per due ordini di motivi:
1) perchè non ha ricevuto nessun ordine scritto, ed è pienamente
consapevole che anche quei suoi stessi colleghi che durante i processi
cercarono d'aiutarlo nelle aule dei Tribunali, lo rinnegherebbero in una
eventuale ma, mai tardiva opera di Verità e Giustizia.;
2) non scordiamoci che, Bruno Contrada ha due figli... di cui uno sarebbe
uno stimato poliziotto... l'altro che è ospite dei miei quaderni
a futura memoria, fà l'avvocato.;
3) In ogni caso, la Verità che potrebbe emergere aggraverebbe inesorabilmente
la posizione giudiziaria di Bruno Contrada, che a quel punto dovrebbe
rispondere del reato di strage. In buona sostanza, come dicono i luridi
criminali “calati iuncù, cà passa la china”. Poi per quanto
riguarda un mio possibile astio personale, nei confronti di Bruno Contrada,
bisogna ricordarsi che, ben altri infami alti funzionari delle Istituzioni
(Questori e Prefetti) costruirono rozzamente e indegnamente, fin dagli
anni 80, le condizioni per attuare l'olocausto esistenziale, economico
e politico di un uomo, (lo scrivente) che “cosa nostra” non poteva eliminare
per motivi d'opportunità politica e sociale. Sembra per quanto
scrive che Lei sia a conoscenza di cose occulte per noi POVERI MORTALI
... che il Dott. Contrada abbia DUE figli ... mi sembra cosa normale e
non degna di nota se non per segnalare eventuali RITORSIONI MAFIOSE ...
allora la Sua frase "CONTRIBUISCE ANCORA A GARANTIRE ... POLITICI
ED ISTITUZIONALI... " allora ben conosce l'impossibilità che
un UOMO del SISDE abbia di scagionarsi denunciando UOMINI POLITICI a cui
ha giurato fedeltà??? Gradirei un Suo riscontro.
Grazie Mauro
______________________________
Inviato
da Anonimo
il 20/12/07 @ 00:54
Non tiriamola tanto per le lunghe, esimio Basile,
lei accusa Contrada della strage di via D'Amelio! Come può documentare
questa sua certezza, su quali basi? E' da una vita che si sforzano tutti,
magistrati, pentiti e DIA, di dimostrare che Contrada era in quellavia,
in quel giorno ed a quell'ora... ma smettiamola, una buona volta, con
tutte queste stronzate...che ci tengono a forza distanti da quella verità
e giustizia che lei implora, Basile!
Olga Zotti
___________________________________
Messaggio
N°475 07-10-2007 - 13:32
Tags: Storia-Miti-Eroi
LA
STRAGE DI MONTE CARMIGNANO (LA MARZABOTTO DEL SUD)
di Giuseppe Sangiovanni - Caiazzo (CE)
Il
tredici ottobre del ‘43 in un casolare del Monte
Carmignano l’efferata strage: ventidue civili, uomini, donne e bambini
trucidati dal boia nazista Wolfang Lehnigk Emden- stanato dopo mezzo secolo-
con il reato caduto in prescrizione. Un giornalista americano inviò allo
stato italiano documenti che avrebbero potuto inchiodare Emden- ma per
ragioni di “opportunità politica” furono insabbiati. Una strage dimenticata,
quella compiuta dai tedeschi in un casolare delle campagne di Caiazzo,
e precisamente nella frazione San Giovanni e Paolo, la sera del 13 ottobre
del 1943. Ventidue le vittime, 4 uomini, 7 donne, 11 bambini d’età compresa
tra i 3 e 16 anni: donne, uomini, bambini, tutti trucidati con inaudita
violenza per ordine di un giovane sottotenente della Wermacht –29° Panzer
Grenadier Regiment, identificato per Wolfang Lehnigk Emden. L’EPIGRAFE
DI BENEDETTO CROCE “Presso Caiazzo/nel luogo detto San Giovanni e Paolo/alcune
famiglie campagnuole /rifugiate in una stessa casa/furono il 13 ottobre
MCMXLIII / fucilate e mitragliate /per ordine /di un giovane ufficiale
prussiano/ uomini, donne, infanti/ ventidue umili creature/non d’altro
colpevoli / di aver inconscie/ alla domanda dove si trovasse il nemico/additato
a lui senz’altro la via/ verso la quale s’erano volti i tedeschi/improvvisario/nelle
umane guerre/ma l’atroce presente nemico/dell’umanità. Questa l’epigrafe
dettata da Benedetto Croce sulla tomba delle vittime di Monte Carmignano,
–dettata due anni dopo la strage nel 1945-su di una lapide collocata nel
cimitero di Caiazzo “solo” nel 1968. QUELLA MALEDETTA SERA Sera del 13
ottobre 1943. Le truppe tedesche sono arrivate da cinque giorni. La sede
di comando tattico della terza compagnia del 29° reggimento, terza divisione
corazzata granatieri si trova presso una casa colonica di Monte Carmignano,
nelle vicinanze del fiume Volturno. Alle ore venti scatta la follia, il
ventenne sottotenente Wolfang Lehnigk-Emden , insieme a due sottufficiali
–Kurt Shuster e Hans Gnass entra nella masseria e avverte il comandante
della compagnia, che da una casa vicina stanno facendo segnali luminosi.
“Questa gente dovrebbe essere presa e fucilata-dice Emden: il comandante
Raschke, gli risponde di non volersi assumere questa responsabilità e
si reca alla sede di comando tattico del battaglione. Emden a questo punto
assume il comando: con Shuster e Gnass si reca nel casolare da dove erano
partiti i segnali, presentandosi come inglese, chiedendo loro notizie
circa le posizioni tedesche. E la condanna a morte a questo punto era
scattata per gli sfortunati civili, rei di aver indicato la sede di comando
tattico della compagnia tedesca. Le sette persone, sono condotte alla
sede di comando tattico e fucilate a distanza ravvicinata(due metri).
Emden non pago , si reca con altri 4 uomini nell’altro casolare E’ la
carneficina. Quindici persone donne e bambini trucidati con modalità allucinanti:
con colpi di fucile, di pistola –usate addirittura due bombe a mano. Corpi
amputati e violentati con pioli di legno. IL CASOLARE DELLA MORTE Calda
è l’aria , un sole timido batte sulle mura di tufo della vecchia masseria:
visibili ancora dopo sessantadue anni i fori fatti dai colpi di mitragliatrice.
Tranquillità e inquietudine miscelate nell’aria ormai contaminata da quella
maledetta sera del 13 ottobre del ’43; quella sera sarà scoppiato l’inferno
, quest’aia , da teatro di vita (qui si erano consumati come di usanza
convivi nuziali)- trasformata da cattivissimi scenografi a teatro di morte.
Una morte giunta improvvisa, inaspettata, strazio e crudeltà inimmaginabili:
donne e bambini violentati e mutilati con furia inaudita, una dinamica
dei fatti oscura, che pone interrogativi che potrebbero aver scatenato
una reazione –risposta cosi dura: ventilato tradimento o l’uccisione di
un tedesco, mai giustificheranno l’efferata strage della Marzabotto del
sud. QUEL MASSACRO IN PRESCRIZIONE I responsabili dell’eccidio furono
individuati, ma riuscirono a farla franca. Carteggi “scomparsi”- tirati
fuori dopo mezzo secolo, per merito di Josepf Agnone, un’italo americano-che
dopo ricerche durate anni riuscì nel 1993 a fare arrestare i responsabili
della strage. Nel 1994 a Santa Maria Capua Vetere, un processo platonico
condannò all’ergastolo il boia di Caiazzo. Nel 1995 a Caiazzo, la Marzabotto
del Sud , piomba come un macigno dalla Germania la notizia che la Cassazione
ha decretato la prescrizione del reato di strage per l’ex sottotenente
della Werhrmacht che ordinò il massacro di 22 innocenti il 13 ottobre
del ’43: una pietra tombale messa sopra al massacro dalla Cassazione tedesca.
Reato prescritto , per l’ex tenentino Emden- divenuto rispettabile imprenditore-architetto,
paradossalmente presidente del locale comitato per le feste di Carnevale,
“il boia della strage”. Verità nascoste per troppi, tanti anni. Cinquant’anni.
La barbarie ricordata con un gemellaggio con la città del boia- nato per
riflettere insieme sulla guerra.
A CAIAZZO, A PIEDI DALLA GERMANIA - Dal gemellaggio delle due città la
singolare e dura maratona Sono stati accolti con i dovuti onori i tredici
“gemelli” di Ochtendung, giunti a piedi a Caiazzo(città martire- medaglia
d’argento al valore) provenienti da Ochtendung, piccolo borgo della Renania
Palatinato, in Germania, distante da Caiazzo “solo” millecinquecento chilometri.
Un grande evento, che conferma il superamento delle barriere ideologiche
conseguenti al gemellaggio impostato sulla pace- per far riflettere le
nuove generazioni sulla crudeltà della guerra.
Inviato
da: vocedimegaride - Commenti: 0
riferimento
_______________________________
Messaggio
N°451 17-09-2007 - 12:38
Tags: Storia-Miti-Eroi
Joe Petrosino
Quell’eroe sudista due volte sfigato
di Marina Salvadore
Joe
Petrosino, padre storico dei nostri investigatori dell’anti-mafia, ebbe
la malasorte di venire al mondo nel piccolo e operoso comune di Padula
nel 1860, esattamente nell’anno dell’annientamento del glorioso Regno
delle Due Sicilie, sua Patria. A 13 anni, in sostanza sul finire delle
cruente lotte dei piemontesi invasori contro i partigiani sudisti, definiti
oltraggiosamente “briganti”, Giuseppe, il padre Prospero, sarto,
e tutta la famiglia fanno i bagagli e partono per l’America, scegliendo
d’essere “emigranti” e non “briganti: le due uniche possibilità offerte
dalla demagogia fatta governo dal Regio Invasore di allora. Per ironia
della sorte, Giuseppe Petrosino diventerà il vero “eroe dei due mondi”,
a cavallo tra il Mezzogiorno d’Italia e l’America, in netto contrasto
con “l’errore dei due mondi”, Peppe Garibaldi. Due “Peppini” molto diversi
tra loro e dai destini tragicamente annodati sullo scenario della neonata,
malferma Italia Unita: l’uno, che combatterà dall’”altro mondo” la Mafia,
l’altro che se n'è servito, invece, per il “prodigioso” sbarco in Sicilia
col suo codazzo di transfuga! Come poteva, mai, Joe Petrosino invecchiare
e morire di morte naturale, se è stata la classica farfalla finita nelle
trame della tela di un ragno? Come tutti sanno, morì nel 1909, risparmiandosi
così la pena di assistere ad un altro “sbarco in Sicilia”, garantito –
anche quello – dalla collaborazione mafiosa. A Padula gli hanno eretto
un busto in piazza, intorno al suo personaggio che sublima sempre più
nel mito…perché in questa Nazione si ha la fetente abitudine di relegare
nelle patrie galere ed in processi kafkiani i migliori “Serpico” di Stato…
associazioni ispirate alla legalità ed alla giustizia, si muovono sul
filo diretto di manifestazioni ed eventi tra l’Italia e l’America. Siamo
stati nella sua casa natale, ora Casa-Museo e sede del “Centro Studi Ambiente
e Legalità”, religiosamente curata come un sacrario da Nino Melito, il
suo pronipote, la cui madre Gilda, negli anni, si premurò di conservare
ogni traccia, ogni pietra, ogni arnese, foto…documenti… che offrissero
alla gente la piena memoria e la più infallibile fonte identitaria di
Giuseppe-Joe. Abbiamo anche raccolto qualche “lamentela” da parte dell’angelo
custode Melito, a proposito, per esempio, dell’ultima fiction televisiva
prodotta dalla Rai TV sull’illustre antenato, impersonato magistralmente
da un altro “Peppino” che di cognome fa Fiorello! Nino Melito è molto
dispiaciuto del fatto che la storia di Joe Petrosino, nella fiction, prende
avvio direttamente sul suolo americano, tralasciando i luoghi natii, le
testimonianze storiche ed il relativo assunto socio-politico, la medesima
casa che è un vero monumento nazionale… ma soprattutto perché, ignorando
queste cose e
questi luoghi da parte della Produzione, alcuna promozione turistica di
Padula e della stessa Casa-Museo è stata possibile, quasi che Joe Petrosino
sia d’esclusiva figlio degli States. Come si può scrivere…e leggere… la
biografia di ognuno se non rapportandolo a quelle che sono le sue origini?
Abbiamo provato a spiegarglielo, secondo il nostro cattivissimo e lucido
punto di vista identitario che la semplicità d’animo del signor Melito
non ha nemmeno lontanamente sfiorato, essendo egli uno dei tanti meridionali
cui la storia patria è stata negata persino sui banchi di scuola. Che
cosa può rappresentare per l’Italia, sorta dalla collusione tra Potere
e Mafia, l’eroe Petrosino, che dall’America prende a combattere proprio
la Mafia…e torna, poi, nell’amato Mezzogiorno, si ferma – gonfio di struggimento
- a cena, una sera, nella sua casetta di Padula dove, come Gesù Cristo
in un’altra storica cena, viene tradito… poi, viaggia fino a Palermo a
farsi ammazzare? La storia contemporanea, che è divenuta un necrologio
di Stato, un elenco telefonico di pompe funebri, non è forse un’ininterrotta
catena d’omertà che da Petrosino, lungo lo stesso sentiero passa per la
lunga fila dei sepolcri del generale Dalla Chiesa… Cassarà… Falcone…Borsellino…
fino ai sottoscala del Potere dove attendono di morire, imbavagliati,
i Petrosino-Contrada… ed altri eroi sconosciuti, Petrosino-investigatori?
Gli italiani ignorano quanti eccellenti Petrosino e Serpico sono costretti
ingiustamente, come Bruno Contrada, in un carcere o nelle aule di Tribunale
a dissolversi, nell’indifferenza totale, pestati sotto il tacco dello
Stivale! Personalmente, oltre Contrada, noi de “La Voce di Megaride”,
ne conosciamo altri tre, ed è lapalissiano che ben quattro simili casi
costituiscano ormai un FENOMENO dilagante, con grandi numeri da statistica,
indicativo dell’eterna collusione tra Mafia e Politica. Chissà come mai
Beppe Grillo, non ha inserito anche quest’orribile pagina di denuncia
nel dossier del suo V-Day…non può essergli sfuggita!… Per questa ragione,
onesto e buon signor Melito, come potrebbe mai quest’Italia - che di fronte
all’opinione pubblica internazionale non può fare a meno di riconoscere
benché tiepidamente l’eroismo di Joe Petrosino, lasciando Padula libera
di erigergli busti e musei…purché non “sconfini” e destabilizzi con ulteriori
approfondimenti storici il suo già precario equilibrio all’atto della
fondazione – fare ammenda e scoprirsi il volto? E gli americani, poi,
che magnificano contrariamente a noi l’eroe Joe Petrosino, come potrebbero
giustificare, senza inimicarsi i direttori di macchina della loro più
grande nave portaerei nel Mediterraneo, il trito e ritrito copione dell’eroico
sbarco alleato in Sicilia, dopo la vergognosa fuga del re “Pippetta”,
in quell’ancor più vergognoso OTTO SETTEMBRE… che abbandonò alla strage
gli italiani tutti, soldati e sudditi? Fratelli contro fratelli... “Corsi
e ricorsi storici”, li definirebbe il Vico: frequentissimi in ogni pagina
della Storia d’Italia ed ormai inoccultabili. Certo, se Petrosino fosse
nato in Piemonte… avrebbe tante statue in tante piazze, come Garibaldi…
ma forse non sarebbe stato JOE PETROSINO... forse, solo l'anonimo figlio
di un anonimo sarto...e lei, cordialissimo signor Melito, non sarebbe
- oggi - l'ignaro custode del più importante monumento nazionale alla
Verità Storica d'Italia ed alla Vandea del Mezzogiorno!
(immagini tratte da www.joepetrosino.org
)
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N°434 24-08-2007 - 21:03
Tags: Storia-Miti-Eroi
Italiani
negati Monongah
Non
c'era proprio nessuno quel caldo giorno del 16 agosto scorso quando nella
piazza di Monongah nel West Virginia si erigeva una statua marmorea
di Carrara per ricordare le eroiche vite di quei 1000 minatori morti nel
lontano 6 dicembre 1907. Eran giovani e forti e sono morti, tra questi,
ufficiosamente, 350 erano italiani, di cui 171 censiti e provenivano dalle
regioni meridionali quali Abruzzo, Molise, Calabria e Campania, quest'ultima
con 14 morti provenienti da Santa Croce del Sannio, 13 per l'esattezza,
ed 1 da Morcone. Nicola Trombetta, presidente delle Associazioni Campane
in Usa esclama: "Sono più di 40 in totale i campani provenienti da Santa
Croce del Sannio e da Morcone ed è vergognoso che in questo ultimo decennio
nessuno, dico nessuno abbia informato le Autorità locali campane; se non
fosse stato per il regista Pino Tordiglione, persona di straordinaria
sensibilità ed umanità, quei morti continuerebbero ad essere dimenticati".
Nessuno ci ha mai informati dichiarano stupiti il Sindaco di Santa Croce
del Sannio, Antonio Di Maria, ed il Presidente della provincia di Benevento
Carmine Nardone alla telefonata di Pino Tordiglione che cercava testimonianze
per il film di Abc e Rai "..e loro scoprirono l'America". Ancora più duro
è il cardinale Renato Martino, Presidente del Pontificio Consiglio Giustizia
e Pace: "E' assolutamente vergognoso che non sia stata data menzione od
informazione sulla tragedia, erano nostri fratelli abbandonati sin da
allora dalla nostre Istituzioni, assicurerò a quei morti l'umana ricorrenza
e scriverò personalmente alle Autorità Italiane; sin d'ora garantisco
che ogni anno la giornata di commemorazione per i morti di Monongah sarà
il 6 dicembre e si partirà proprio il sei dicembre di quest'anno da Santa
Croce del Sannio a significazione di quelle vittime dei piccoli comuni
d'Italia".
Mary Villano-PT Agency News/News ITALIA PRESS
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N°427 17-08-2007 - 11:20
Tags: Storia-Miti-Eroi
Trinacria:
Dietro Garibaldi. Il nostro passato che... non passa
di Mario Di Mauro, Placido Altimari, Alessandro Lattanzio - www.terraeliberazione.org

La cosiddetta Impresa
dei Mille copriva la conquista coloniale anglo-piemontese delle Due Sicilie.
Garibaldi fu solo uno degli attori, e manco il più importante. Nè riveste
particolare rilievo il luogo in cui tizio o caio è nato: fosse anche Ribera,
conterebbe sempre, comunque e solo la sua funzione nella Storia. Non ha
comunque senso storiografico il sopravalutare, nel bene e nel male, il
ruolo di un qualunque individuo in fatti di grande portata. La cosiddetta
"Impresa dei Mille" fu nient'altro che una riuscita operazione di copertura
della conquista coloniale anglopiemontese delle Due Sicilie. In termini
tecnici questo tipo di operazioni si chiamano false-flag, falsa-bandiera.
Chiediamoci piuttosto perchè -dopo quasi un secolo e mezzo- sia sostanzialmente
vietato raccontare nelle scuole la Verità Siciliana sui fatti del 1860.
Quanti insegnanti delle nostre scuole, per dirne solo una, sanno che l’8
maggio del 1860 Garibaldi, già mercante di schiavi, e i suoi, in navigazione
verso Marsala, fecero sosta a Talamone, in Toscana: e qui si allenarono
in saccheggi e violenze in attesa di imbarcare circa 2.000 finti "disertori"
dell'esercito piemontese?. E' solo un dettaglio, nè può bastare questo
spazio a raccontare tutto. Un immenso Archivio di documenti -che studiamo
da anni- lo dimostra in forme scientificamente inconfutabili. Dietro i
"Mille" avanzava nell'ombra un corpo di spedizione di 22.000 militari
costituito da tagliagole ungheresi e... zuavi, già mercenari di Parigi
nell'esportazione della civiltà nei villaggi dell'Algeria e sui monti
della Kabilya; da soldati e carabinieri piemontesi, momentaneamente posti
in 'congedo', e riarruolati come 'volontari' nella missione d'invasione.
Eppoi c'erano i veri e propri "specialisti" finanziati apertamente dalla
massoneria inglese. Gli "inglesi" dovevano distruggere la grande flotta
mercantile delle Due Sicilie, in vista dell'apertura del Canale di Suez:
l'unico potenziale concorrente -dalla Cina alle Americhe- venne pugnalato
alle spalle. I "piemontesi" dovevano svuotare le ricche casse delle Banche
delle Due Sicilie, per pagare i loro debiti. Contratti a Genova, a Londra,
a Parigi...Tutti dovevano distruggere la nascente industria delle Due
Sicilie, per trasferirla in Paludania, come dice il nostro maestro Nicola
Zitara.Ma soprattutto dovevano "controllare" le 412 miniere siciliane
di zolfo, il petrolio del tempo, senza il quale nè industria nè flotta
militare di Sua Maestà britannica avrebbero potuto dominare il Mondo per
un secolo. Ci hanno fottuti. Giova ricordare che l'impero inglese, alla
metà dell'Ottocento, fu impegnato in una serie di guerre contro determinati
Stati: Regno delle Due Sicilie, Paraguay e gli stessi USA, che avevano
deciso di seguire uno sviluppo autocentrato, sviluppando l'industria locale
e rafforzando la propria agricoltura e il proprio commercio tramite l'applicazione
dei dazi. Ciò avrebbe permesso lo sviluppo economico, pur restando al
di fuori dell'influenza bancario-finanziaria e, quindi, politica di Londra.
L'impero britannico reagì, a tali comportamenti, creando operazioni tipo
False Flag (Falsa Bandiera): come quella dei "Mille". E ci andò meglio
che in Paraguay, dove una coalizione militare pilotata da Londra si risolse
con la distruzione fisica del Paraguay e della sua popolazione maschile.
Alla fine si ebbe un rapporto di otto donne per ogni uomo. La donchisciottesca
spedizione di Garibaldi e dei suoi Mille -come la definisce Mack Smith
nel suo "Cavour e Garibaldi"- venne finanziata dalla massoneria inglese
con una cassa di piastre d'oro turche (moneta franca nel Mediterraneo
del tempo) pari a molti milioni degli attuali dollari. Le navi militari
inglesi, "casualmente" alla fonda in Marsala, con uno stratagemma protessero
lo sbarco dei "Mille". Tempo dopo, il cassiere della spedizione, Ippolito
Nievo, e i registri contabili, vennero fatti sparire nel nulla. I "Mille"
si trovarono la via aperta dalla corruzione mirata dei vertici militari
del povero Re delle Due Sicilie, e servirono da copertura allo sbarco
di un imponente Corpo di Spedizione anglo-piemontese (22.000 soldati,
tra cui vere e proprie "legioni straniere" di tagliagole ungheresi e zuavi).Gli
obiettivi erano chiari, e bisogna averli chiari anche oggi:1-distruggere,
peraltro illegalmente, lo Stato sovrano delle Due Sicilie, a partire dalla
sua grande flotta commerciale (la terza del Mondo), in vista dell'apertura
del Canale di Suez; 2-controllare gli zolfi, che facevano della Sicilia
la Miniera del Mondo: erano "i solfi siciliani" a muovere l'industria
e la flotta d'Inghilterra e non solo; 3-saccheggiare l'oro e l'argento
delle Due Sicilie: prima con la rapina in piena regola, poi con l'astuzia
del "corso forzoso". Questo doveva accadere senza "dichiarare la guerra",
dunque nel caos, con la corruzione, l'ipocrisia, l'inganno. E accuddhì
fu. La Sicilia fu saccheggiata. Una minoranza di isolani venne poi cooptata
nel nuovo sistema e usata contro il Popolo siciliano, dando vita, come
in tutte le colonie, a uno strato sociale parassitario e collaborazionista,
che può "fare carriera" purchè operando in nome e per conto di chi sfrutta
la nostra Isola. Questo schema di ingegneria sociale è antico almeno quanto
la Roma imperiale. E la nostra Sicilia l'aveva "sperimentato" sulla sua
pelle, dopo la sconfitta del partito indipendentista dei siculo-catalani,
anche nel Cinquecento della dominazione castigliana, sebbene vi attecchì
meno in profondità di quanto una storiografia pigra e neocoloniale ci
abbia fatto credere. Per capire la Sicilia di oggi
occorre aver chiaro
cosa accadde nel 1860. Perchè quel "passato" non è ancora passato. Poi
parliamo del seguito, se si può. A partire dalle operazioni occulte della
cosiddetta Banca Nazionale, dei Bombrini, dei Balduino, dei Sella...perchè
è sulla questione bancaria e sulla speculazione ferroviaria che si giocò
il decollo padano e l'affossamento definitivo delle ex-Due Sicilie, oggi
chiamate Mezzogiorno: patria dei "mezzogiornali". Alcuni fatti. Le due
famose navi piemontesi furono avvistate con "ritardo" dalle navi borboniche.
Erano in servizio in quelle acque la pirocorvetta Stromboli, il brigantino
Valoroso, la fregata a vela Partenope (comandata dal traditore capitano
Guglielmo Acton) ed il vapore armato Capri. Avvistarono i garibaldini
la Stromboli e il Capri. Quest’ultimo era comandato dal capitano Marino
Caracciolo che, volutamente, senza impedire lo sbarco, aspettò le evoluzioni
delle cannoniere inglesi Argus (capitano Winnington-Inghram) e Intrepid
(capitano Marryat), che erano in quel porto per proteggere i garibaldini.
Solo dopo due ore il Lombardo, ormai vuoto, fu affondato a cannonate,
mentre il Piemonte, arenato per permettere piú velocemente lo sbarco,
venne catturato e rimorchiato inutilmente a Napoli. Roba da film tragicomico...ma
la RAI non lo produrrà mai. Lo farà la Repubblica Siciliana...A Marsala
parte della popolazione si chiuse in casa, altri fuggirono nelle campagne.
I garibaldini, accolti festosamente solo dagli inglesi, per prima cosa
abbatterono il telegrafo, poi alcuni si accamparono nei pressi della città
praticamente vuota, mentre Garibaldi, temendo la reazione popolare si
rifugiò con altri nella vicina isola di Mozia. Il seguito dell' "Impresa",
da Calatafimi in poi, è una farsa militare resa possibile dalla corruzione
mirata dei vertici dello Stato delle Due Sicilie, realizzata alle spalle
del suo leggittimo e ingenuo Re. Il conflitto secolare tra la Sicilia
e Napoli, aveva comunque minato le fondamenta di quella costruzione statuale.
Ricordiamo che il Popolo siciliano, pochi anni prima, nel 1848, aveva
conquistato per via rivoluzionaria la sua Indipendenza. La Restaurazione
europea la travolse insieme alle barricate erette dalle Maestranze Operaie
abbandonate dall'aristo-borghesia che si preparava già a saltare, come
sempre, sul carro della potenza coloniale di turno. L'analisi del trasformismo
ascarizzato delle "classi dirigenti" trova nella vicenda siciliana materiale
di studio prezioso per la comprensione del fenomeno neocoloniale in tutto
il Sistema-Mondo. E non è un caso se sull'argomento la Fratellanza Siciliana
"Terra e LiberAzione" ne discute in mezzo Mondo. L'atto di annessione
dell'Isola allo Stato di Vittorio Emanuele II nel 1860 non fu chiara e
libera manifestazione plebiscitaria della volontà dei Siciliani, ma un
vero e proprio atto di forza. Lo stesso Garibaldi, che non era un fesso,
confessa a varie riprese che il popolo fu sempre assente nel "movimento
per l'unificazione italiana", quando non fu decisamente contrario. Lo
stesso Mazzini, rispondendo con uno scritto alla circolare 15 agosto 1860
del ministro Farini, nella quale si rivelava la decisione del governo
piemontese per l'annessione, spinse deliberatamente a quell'atto, proprio
perchè temeva le pesanti riserve dei Siciliani e intendeva tagliar corto
alla idea piú sana di una Confederazione Italiana, propugnata dal Gioberti
e da diversi patrioti siciliani tra il 1848 e il 1860.La stessa relazione
del Consiglio Straordinario di Stato-istituito in Sicilia dal prodittatore
Mordini con decreto 19 ottobre 1860 e con il quale, ad annessione avvenuta,
i rappresentanti del Popolo Siciliano avrebbero dovuto discutere e proporre
gli ordinamenti piú convenienti alla Sicilia per entrare a far parte dello
Stato Italiano- non ebbe mai seguito. Mentre la Luogotenenza -promulgata
da Vittorio Emanuele II a Palermo il 1° dicembre 1860, in occasione della
sua prima visita, ed in base alla quale lo Stato avrebbe avocato a sè
soltanto la branca degli Affari esteri e quella della Difesa, lasciando
il resto in mano ad amministratori siciliani che avrebbero fatto parte
del Consiglio di essa -visse una breve e grama esistenza e fu abolita
con un semplice Decreto Reale il 1° febbraio 1862. Tutto -come ben sappiamo
dalla lettura dell'art.4 del "decreto prodittatoriale 9 ottobre 1860",
con il quale si stabilí l'infame sistema di votazione per il plebiscito-
si svolse in un'atmosfera di vera e propria sopraffazione della libera
volontà dei Siciliani. I risultati di quel plebiscito registrarono soltanto
667 "no" su 432.720 votanti, con una percentuale che supera il 99,99%
dei cosiddetti "si". Lo stesso Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette
scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono
l'autonomia, nessuno l'annessione, ma i pochi che votano sono costretti
a votare per questa". E un altro ministro inglese, lord John Russel, mandò
un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi
regni non hanno il minimo valore". Con una buona dose di ipocrisia. Entrata
cosí a far parte del Regno d'Italia, la Sicilia, nel giro di pochi anni
si vide spogliata dell'ingente patrimonio di quei Beni Ecclesiastici che
fruttarono allo Stato 700 milioni del tempo, della riserva d'oro e d'argento
del suo Banco di Sicilia, e vide portato il carico tributario a cinque
volte di piú del precedente. Come accertò Giustino Fortunato, mentre per
l'anno 1858 esso era stato di sole lire 40.781.750 per l'anno 1891 le
sue sette province registrano un carico di lire 187.854.490,35. Si inasprirono
inoltre i pesi sui consumi, sugli affari, sulle dogane, le tasse di successione
che prima non esistevano, quelle del Registro che erano state fisse, quelle
di bollo, per cui nel 1877 queste tasse erano già pervenute a 7 milioni
e nel 1889-90 avevano raggiunto i 20 milioni. La vendita del patrimonio
dello Stato -ossia del demanio dell'ex Regno della Due Sicilie- impinguato
dai beni dei soppressi Enti Religiosi e sommato alla vendita delle ferrovie,
aveva fruttato allo Stato italiano oltre un miliardo, senza contare il
capitale dei mobili, delle argenterie e tutta la rendita del debito pubblico,
posseduta dalle Corporazioni religiose, che venne cancellata del tutto.
E non erano "beni della Chiesa di Roma", ma frutto dell'accumulazione
di famiglie siciliane investito sul "figlio prete"! Le terre demaniali
che Garibaldi aveva promesso ai contadini ed ai "picciotti" il 2 giugno
1860, con il decreto concernente la divisione dei demani comunali, andarono
soltanto ad impinguare i patrimoni dei nobili e dei borghesi, per cui
già nel giugno e nel luglio del 1860 si ebbero in Sicilia quelle sollevazioni
che assunsero "proporzioni vastissime, poiché i contadini rivendicarono
non solo la quotizzazione dei demani ancora indivisi, ma anche la nuova
quotizzazione dei demani usurpati o illegalmente acquistati da nobili
o borghesi, oppure il ristabilimento su di essi dei vecchi diritti d'uso".Il
risultato di quelle richieste legittime furono le feroci repressioni eseguite
da Bixio a Bronte, e dagli altri garibaldini a Caltavuturo, a Modica,
e in tante altre sventurate comunità."Verso la fine di giugno e nel corso
del luglio 1860 la frattura tra governo garibaldino e movimento contadino
si venne via via accentuando, non solo per la resistenza popolare alla
coscrizione (resa obbligatoria da Garibaldi con il decreto del 14 maggio)
ma anche perché le autorità governative e le forze armate garibaldine
furono portate sempre piú a schierarsi a favore dei ceti dominanti" (G.
Candeloro) In questo clima di disagio morale, economico, sociale e politico,
aggravato dall'imposizione della leva militare che i Siciliani avevano
sconosciuto fino allora, il Parlamento Italiano conferí i pieni poteri
al Generale Govone nel 1863, al fine di ridurre in Sicilia l'opposizione
al servizio militare, consentendogli di tenere dei tribunali militari
e di fucilare la gente sul posto. Gli eccidi consumati allora dalle truppe
del Govone, specie a Licata e in tanti altri centri dell'interno dell'Isola,
furono denunziati all'opinione pubblica nel dicembre del '63 dal deputato
cattolico moderato Vito D'Ondes Reggio e da molti deputati della Sinistra
e della Destra al potere, ma come dice con lapidaria frase il Candeloro:
"questo gesto clamoroso non modificò peraltro la politica del governo
in Sicilia" (N. Turco). Quando poi scoppiò la Rivoluzione di Settembre
1866 e per le strade di Palermo si gridava: "Viva la Repubblica! Viva
i Monasteri!", l'italietta savoiarda rispose bombardando Palermo dal mare!.
I morti non poterono contarsi. Poi arrivarono il "corso forzoso" e la
colossale speculazione bancaria sulla quale si fonda, da allora, il "capitalismo
padano".
Inviato da: vocedimegaride
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N°423 12-08-2007 - 14:16
Tags: Storia-Miti-Eroi
Una Marcinelle
americana
West Virginia:
Monongah
commemora 1000 minatori morti, tra essi oltre 350 erano italiani.

Il 15
agosto 2007, Monongah, una piccolissima cittadina del West Virginia in
USA, commemora i suoi mille minatori morti: la più grande tragedia mineraria
nella storia degli Stati Uniti d’America. Era il 6 dicembre del 1907 quando
quella terribile esplosione, una fuga di gas, spense per sempre i sogni
di quei 1000 minatori, tra essi oltre 350, si calcola ufficialmente, di
età compresa tra 13 e 50 anni, erano italiani. Assunta Leonardis del New
Jersey, volontaria e stretta collaboratrice del fu padre Everett Francis
Briggs, studioso e scopritore della tragedia, in un’intervista rilasciata
al regista Pino Tordiglione per Rai e Abc, dichiara: “Se ne contano tanti
di più, se si pensa che a quel tempo qualcuno favoriva l’immigrazione
clandestina , infatti, ogni minatore poteva portare con se due o tre persone,
tra questi la maggior parte erano giovanissimi, bambini; loro giacciono
lì, ignoti, in quella fossa comune, dimenticati dall’uomo e dal destino
che attendono invano l’attenzione delle proprie Patrie. Molti di questi,
171 italiani identificati, provenivano da San Giovanni in Fiore, San Nicola
dell’Alto, Falerna, Gizzeria, Civitella Roveto, Duronia, Civita d’Antino,
Canistro, Torella del Sannio ed altre cittadine della Campania, Calabria,
Abruzzo e Molise”. Oggi, a distanza di un secolo, per interessamento dei
volontari e del governatore dello Stato della Virginia i nostri ignoti
avi saranno ricordati con il marmo della loro terra, Carrara: una statua
in loro onore sarà eretta nella piazza centrale di Monongah. Ancora una
volta assistiamo all’indifferenza della nostra Patria, o meglio di coloro
che la rappresentano, una tragedia di queste proporzioni è stata dimenticata
ed ignorata per un secolo, immaginate la considerazione che hanno di noi
italiani, vivi e vegeti, qui in America. I nostri governanti italiani
si sono ricordati solo di Marcinelle che si celebra l’8 agosto... Monongah
dov’è?... "Assolutamente vergognoso! Ognuno con le proprie azioni dimostra
quello che è! " , così si è espresso il presidente delle Associazioni
Campane in Usa, Nicola Trombetta. Mary Villano - PT Agency News
Inviato da: vocedimegaride
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N°415 06-08-2007 - 11:02
Tags: Storia-Miti-Eroi
Meditazioni
tristi sotto l'ombrellone del Lido Mappatella
di Domenico Di Renzo
Brutta storia. Brutta
e falsa. Napoli Borbone, Napoli garibaldina. Napoli puttana. Ha sostituito
un Re con un altro. Il Re di una stirpe centenaria, con un altro di stirpe
stracciona. Deliro forse. Forse.
Sarà un' imbriacatura di camicie rosse,
del megafono che urla il nome di Garibaldi, fatto risuonare come un disco
rotto ancora a duecento anni dalla sua nascita. Garibaldi multimediale,
l’avventuriero, il fallito, il brigante, il massone, l’assassino, il mandante,
lo stupratore, il pirata ed altro ancora. Il Re Sabaudo e Garibaldi....o
meglio... Il re Sabaudo, Garibaldi, la Massoneria inglese, l’imperatore
Francese, Cavour, il Rubattino, i liberali, Carlo Marx, Mazzini, Crispi,
ed un'accozzaglia di banchieri, avvocati, generali, medici e tanti altri
che fuggivano o che inseguivano un sogno di ruberie e saccheggi. Ruberie,
saccheggi e la mala siciliana e la malavita napoletana. I paesi distrutti,
incendiati, dai mille. Solo mille...o venticinquemila... ingrossati dagli
sbarchi dei sedicenti disertori piemontesi. Fucilazioni, deportazioni.
Saccheggi, come fu saccheggiato il tesoro ed i beni della corona, le chiese,
gli altari dei santi... ed il popolo. Don Liborio si dette da fare per
tenerlo tranquillo. Le truppe serrate inermi nelle caserme, ad opera di
ufficiali e generali forse imbelli, ma senz’altro collusi o aderenti alla
Massoneria. Francesco II, rimasto lontano da ogni conoscenza, per colpa
di una corte, sicura di sé, dei suoi privilegi e di Ferdinando che pensava
di avere tutto il tempo per preparare il figlio al difficile compito.
Garibaldi, figura luciferina per la Chiesa. Grande peccatore cui solo
la camicia rossa rifulge di colore. Solo per il colore, però, e per tutta
quella campagna mediatica, di allora e di oggi, che da più di due secoli
è stata condotta per giustificare la nascita della Nazione Italiana. Nazione,
no! Stato unitario, quello, sì. Nazione significa una storia comune, una
civiltà, una radice. Senza voler fare altre distinzioni, voglio gridare
che il Sud ha una sua storia, una sua cultura, una sua civiltà, una sola
radice millenaria, patria di filosofi e studiosi. Università, dove il
sapere veniva impartito alla luce del sole, delle stelle. Pitagora , Platone,
la nostra storia e più tardi G.B.Vico ed altri. Il Sud, faceva allora
gola allo Stato Sabaudo, oppresso e dilaniato dai debiti, dalla politica
del Cavour, dalle scappatelle extra del proprio Re...che non disdegnava
le lavandaie. L'Inghilterra che aveva intere zone di influenza sotto il
suo protettorato, Marsala, con le miniere di zolfo era prettamente una
colonia inglese, con la popolazione inglese e massonica. La Francia che
non vedeva l’ora di poter costituire una base avanzata alle sue mire sull’Egitto
e sui prossimi commerci nel Mediterraneo e di estromettere l’ influenza
dell’Austria e della Russia.. E Garibaldi, e Crispi, e Mazzini, servi
e signori delle influenze straniere. Garibaldi, pronto ad approfittare
delle spinte inglesi alla secessione siciliana, Crispi, massone ed itinerante,
e Mazzini, estensore con Carlo Marx dell’Internazionale socialista. Quanti
morti, prima, durante e dopo la conquista del nostro meridione. Garibaldi,
dopo essere fuggito da Genova, si rifugia a Nizza, si imbarca per la Tunisia,
raccoglie sbandati e profughi e si dà alla vita di corsa con un pirata
algerino. Certo non è eroico, depredare ed uccidere inermi passeggeri,
privandoli dei propri beni e della propria vita. Si rifugia in Brasile,
con pochi compagni e continua, con il commercio degli schiavi, con ruberie,
saccheggi ed incendiando i villaggi della costa. Si unisce alle bande
antigovernative, con una guerra di imboscate e guerriglia. Nasce, quando
è in carcere il mito della Camicia rossa, del biondo Nizzardo, dai lunghi
capelli portati così, perché una donna violentata gli aveva staccato l’orecchio
con un morso e dei suoi eroici legionari. Scappa su una nave argentina
e per tutto ringraziamento, vi fomenta moti e sedizioni. Torna in Italia,
si offre al Re Carlo Alberto che lo rifiuta . costringendolo alla fuga.
Con Mazzini a Roma dà vita alla Repubblica Romana, per poi scappare alla
reazione dell’esercito napoletano. Abbandona morente Anita, nelle paludi
, la stessa Anita che aveva portato via al marito, facendolo uccidere
dai suoi stessi legionari in camicia rossa. Mazzini, si rifugia in Inghilterra,
da dove continua a portare morte e distruzione tra gli stati europei e
cattolici. Garibaldi, il grande e magnificato tombeur de femme, sa sul
punto di sposarsi che il figlio atteso non è suo e con grande scorno,
fugge a Quarto. Cavour e Rubattino hanno pianificato la conquista del
Sud ed i due vapori, sono pronti, i soldi sono stati raccolti ed i garibaldini
partono. Sotto la protezione delle navi inglesi, con il beneplacito francese
e l’accompagnamento dell’organizzazione sabauda. Ricordo una affermazione
di un rappresentante odierno della famiglia dei Savoia. Rispetto la Bandiera
Borbonica Napoletana, perché abbiamo rapporti di famiglia. Sappiamo e
dobbiamo farne a meno, anche se è vero perché la madre di Francesco II°
apparteneva ai Savoia. Dopo tanti anni, la Storia, la stessa a cui Francesco
consegnava il giudizio sulla sua Persona, deve essere riscritta in maniera
da rendere giustizia, anche a tutti i nostri Briganti, a cui, non rimaneva
altra soluzione, che fu suggerita dallo stesso Crispi, emigrare o morire.
Dimentico Rubattino, gli armatori generosi, fino al punto di ricevere
in premio i vapori napoletani, datigli in garanzia da Cavour ed i rappresentati
piemontesi . Tutto è finito, gli eroi piangono, il popolo quel popolo
è stato l’unico a morire per il proprio Re in cinque anni di guerra, dove
i militari del nuovo stato italiano hanno bruciato, trucidato ed ucciso
, cancellando interi paesi della Sicilia, degli Abruzzi , del Beneventano
. Il Re Borbone, è morto in terra straniera, perseguitato dai suoi parenti,
che lo hanno depredato e spogliato di tutto, fuorchè dell’onore, che egli
dichiarò non essere in vendita . Sul trono, non siedono più i Re, ma altri
figuri, figli di questo paese, e di questa Italia Risorgimentale che continuano
sotto lo stesso dominio ad inzozzare, a depredare, a rubare storia e memoria,
sicuri dell’immunità. Vedo un Alfiere, suona la tromba a Gaeta ….Forse,
tutto questo rosso...e non è vino...mi ha fatto delirare. Oppure è questo
sole cocente sul lido Mappatella, sempre superato velocemente in auto,
guardato e non visto...sul quale, solo oggi, sono sdraiato ad assorbirne
tutta la Pucundria ctonia!
Inviato da: vocedimegaride
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N°409 23-07-2007 - 21:00
Tags: Storia-Miti-Eroi
Cristiani
perseguitati
Segnalato da Raffaele Minimi - tratto da ml cristianiperseguitati@yahoo.it
STORIA-Per la prima
volta uno studio ricostruisce le agghiaccianti persecuzioni contro la
Chiesa cattolica nell'Albania comunista - Martirio albanese - I documenti
parlano di centoventi credenti vittime di un regime che voleva cancellare
la fede del suo popolo. Ma gli archivi devono ancora essere aperti (di
Antonio Giuliano) Il suo vero nome è Shqiperi «il paese delle aquile».
Ma Albania nel corso del Novecento ha conosciuto ben altri rapaci. Gli
artigli che hanno dilaniato la popolazione albanese sono stati quelli
dei comunisti al potere dal 1944 al 1991. Enver Hoxha,dittatore marxista,
è riuscito a fare del piccolo stato albanese uno scolaro modello dei
più
ferrei precetti comunisti. La repressione è stata esercitata con una ferocia
che non ha nulla da invidiare ad altri regimi rossi. Grazie anche ai servizi
segreti della «Sigurimi», il Kgb nazionale, nel periodo comunista circa
un albanese su tre è stato o vittima, o carnefice al servizio del Partito.
Tuttavia la furia di Hoxha e compagni si è scatenata con inaudita brutalità
contro i credenti, in particolare contro i cattolici. Esce oggi in libreria
un volume il cui titolo parla da solo: Hanno voluto uccidere Dio. La persecuzione
contro la Chiesa cattolica in Albania (1944-1991 Avagliano, pagine 268,
euro 15). L'autore, Didier Rance, ha recuperato il profilo di più di centoventi
martiri della fede. Hoxha s'impadronì del potere nel 1944. E i suoi bersagli
preferiti diventarono subito il clero e i fedeli. Tutti i luoghi di culto
furono presi d'assalto, profanati, bruciati o trasformati in depositi
o magazzini. Vescovi e preti furono arrestati, malmenati in pubblico,
inviati nei campi di lavoro. Le suore furono obbligate ad abbandonare
l'abito: quelle che rifiutavano venivano gettate nei campi o inviate nude
nelle strade della città dopo esser state torturate. I processi farsa
a cui furono sottoposti i credenti venivano diffusi via radio e riassunti
in uno speciale la domenica mattina all'ora della Messa. Il titolo della
trasmissione era: «l'Ora gioiosa». E il sadismo continuava anche dopo
la morte. I cadaveri dei suppliziati venivano gettati in fosse comuni
e sotterrati in posti diversi per l'assurda paura di Hoxha e della sua
cerchia di vederli «rinascere e uscire dalla loro tomba». Il risultato
finale è stato un vero sterminio della fede, per cui già nel 1967 il regime
poteva vantarsi sul giornale ufficiale di essere «il primo stato ateo
del pianeta». Ed Enver Hoxha, dopo aver incassato le congratulazioni di
Stalin, dichiarava con fermezza: «Il nostro partito ha prima piegato il
braccio della chiesa cattolica e, adesso, gli abbiamo tagliato la testa».
Ma le persecuzioni sarebbero andate avanti ancora per molti anni. Non
fu certo facile soffocare il credo religioso di una terra che pare sia
stata evangelizzata dallo stesso Paolo di Tarso e cristianizzata
per secoli
da francescani e gesuiti. «Ogni fascista portatore di un vestito clericale
deve essere ucciso con una palla nella testa e senza processo». Era questo
uno dei motti del regime. Ma illuminante è la testimonianza di uno dei
cardinali più perseguitati, Mikel Koliqi (morto nel 1979): «Il regime
voleva costruire un "Uomo nuovo", spoglio di tutte le sue radici. Ma la
fede cattolica conferisce all'uomo una dignità che gli impedisce di tacitare
la sua coscienza. Il cattolicesimo regolava così la vita della nazione.
I nostri più grandi poeti e scrittori erano cattolici. Avevamo eccellenti
scuole frequentate anche dai musulmani. Il regime comunista ha voluto
decapitare tutta la classe dirigente ed intellettuale del Paese. Per cinquant'anni,
la nostra letteratura è stata cancellata dai libri e dalla nostra memoria».
Dopo la morte di Hoxha nel 1985, l'incubo per l'Albania è terminato solo
nel 1992. Oggi c'è il forte sospetto che tanta storia debba ancor esser
scritta. Come denuncia l'autore: «C'è stata una volontà sistematica del
regime comunista di far sparire le tracce dei suoi crimini. Gli archivi
dello stato comunista albanese permetteranno un giorno di scrivere con
precisione la persecuzione. I sopravvissuti sono pochi e anziani. La loro
memoria, molto precisa nel raccontare i fatti, lo è talvolta meno nel
datarli: la perdita del senso del tempo era un principio della repressione».
Significativo l'esempio di padre Anton Luli, morto nel 1998, condannato
all'isolamento per propaganda religiosa nel campo di lavoro di Shënkoll:
aveva annotato le fasi della luna al fine di conservare la memoria delle
feste liturgiche. Indicibili le torture per gli altri perseguitati citati
nel testo. Per tutti vale il triste primato sottolineato da Giovanni Paolo
II. «La storia non aveva ancora conosciuto ciò che accadde in Albania».
Eppure l'allora Pontefice rimarcava l'eroico coraggio del piccolo gregge
sopravvissuto, a prova che «fu vana la pretesa di sradicare Dio dai cuori
degli uomini». Un Paese ora pronto a riprendere il volo, ma consapevole
delle sue cicatrici. Scrisse Milovan Djilas, sostenitore del comunista
jugoslavo Tito e poi oppositore: «Fra quarant'anni gli uomini si meraviglieranno
delle realizzazioni grandiose compiute dal comunismo e si vergogneranno
dei metodi usati per compierle». Alla fine, però, il comunismo lasciò
anche in Albania solo vergogna. E un popolo di sopravvissuti in cerca
di un gommone.
Inviato da: vocedimegaride
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N°372 del 23-06-2007 - 10:14
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L'avventura
di Procida Marinara
di Sergio Zazzera
Vi fu un momento,
allo scoccare del cinquantennio della monarchia borbonica, in cui,
se alla marineria sorrentina spettò il primato per le dimensioni
dei suoi scafi, quella procidana, viceversa, conquistò quello della
consistenza numerica del naviglio: ed erano trascorsi, all’incirca,
quattro secoli dal momento in cui i leggendari mastri calafati Perotto
di Martano e Iacopo Assante avevano cominciato a costruire galee
regie alla marina della Lingua, mentre i commerci con la terraferma
più vicina – quella, cioè, napoletana e quella flegrea – erano intrattenuti
dai marinai di Procida con l’impiego d’imbarcazioni leggere, come
tartane e marticane. Del resto, non v’è dubbio che le sorti di un’isola
siano strettamente legate al mare che la circonda, a quello stesso
mare che consente l’accostamento e, soprattutto, il temuto sbarco
dei pirati Barbareschi (più crudele, fra tutti, quel famigerato
Khair-ed-Din, detto “Barbarossa”), cui si tenta di porre rimedio,
oltre che rinserrandosi nel borgo di Terra Murata o in casali ben
muniti, come il “Vascello”, anche votandosi a san Leonardo, patrono
degli schiavi, alla Madonna della Libera, che “libera”, per l’appunto,
dai pericoli, e, soprattutto, a san Michele arcangelo, che più volte
ha folgorato, con la punta lucente della sua spada, le prore delle
navi di quei predatori, facendole affondare; fra il 1615 e il 1617,
poi, i “padroni di barca” dell’isola danno vita al “Pio monte dei
marinari”, organismo di mutualità ante litteram, che provvede al
riscatto dei marinai dell’isola fatti schiavi dai Barbareschi, oltre
che alla dotazione delle più povere tra le giovani in età da marito.

Le 169 navi da carico ascritte al naviglio isolano nel 1774 sono
diventate, dunque, già 200 nel 1791, ma il loro numero è raddoppiato,
appena cinque o sei anni dopo, e loro meta diventano i porti del
Nord Europa e poi, progressivamente, quelli del Baltico e del mar
Nero, la costa occidentale dell’Africa, le Antille, la Martinica
e il Brasile: una colonia procidana s’insedia, addirittura, in Algeria,
a Mers-el-Kebir, mentre, alla metà dell’’800, i brigantini dell’isola
raggiungono, addirittura, il “Nuovo mondo”. Né, peraltro, la navigazione
procede sempre senza pericoli, come attestano le numerose tavolette
votive dipinte, presenti in alcune delle chiese procidane, da quella
Abbaziale, a quelle della Madonna della Libera e di San Giuseppe.
Già dal 1834, inoltre, si trova attestato il fenomeno delle c.dd.
“famiglie armatoriali” – i Mazzella, gli Assante, i Florentino,
gli Scotto, gli Scotto di Pagliara, i Nugnes –, sorta di novelli
clan gentilizi, i cui componenti, uomini e donne, sono impegnati,
ciascuno secondo le proprie capacità, nell’attività d’armamento
e di noleggio “a caldo” dei brigantini di loro proprietà, realizzati,
per lo più, dal cantiere locale, gestito, dapprima, da Giacinto
Scotti e, poi, dal mitico mastro Arcangelo Lubrano di Vavaria e
dal figlio di lui, Nicola. Per assicurare la formazione dei capitani
– affidata, finora, alla scuola napoletana di San Giuseppe a Chiaja
–, nasce, altresì, in questo stesso scorcio di tempo, la Scuola
comunale di navigazione, destinata a diventare, in prosieguo di
tempo, Regio istituto nautico e di costruzione navale.

L’“età dell’oro”
della marineria procidana coincide con il periodo postunitario e
vede, da una parte, il consolidamento del fenomeno delle “famiglie
armatoriali” – i Guida, i D’Abundo, i Galatola, i Lubrano di Vavaria,
i Mazzella di Stelletto, i Fevola, i Mazzella di Bosco, i Lubrano
di Scampamorte, i Mazzella, gli Scotto Lachianca, i Mignano – e,
dall’altra, i primi passaggi di capo Horn, nei quali particolare
esperienza acquisiscono i capitani Vincenzo D’Ambrosio e Antonio
Scotto di Monaco. Circostanze contingenti vedono, perfino, assumere
il comando d’uno scafo una donna, Marialuisa Ambrosino, imbarcatasi
sulla nave comandata dal marito, Domenicantonio Scotto di Santillo,
allorché costui è colto, improvvisamente, da una grave infermità,
durante la navigazione. A sostegno delle attività marinare nascono,
in questo stesso periodo, la “Mutua di assicurazione procidana”
(1867) e la Banca popolare “Giovanni da Procida” (1873). A segnare,
purtroppo, il progressivo declino della gloriosa marineria procidana
è il prevalere della navigazione a vapore su quella velica: la diffidenza
innata dell’isolano verso ogni manifestazione di “novità” , soprattutto
se vi sono connessi rischi, induce, infatti, gli armatori di Procida,
tutt’al più, a dare una parvenza di nuovo agli scafi dei loro velieri,
facendoli foderare di metallo, mentre soltanto qualcuno tenta un
timido approccio con i “vapori”, più che altro, per l’intensificazione
del trasporto di passeggeri e merci da e verso la terraferma, sia
napoletana, che flegrea, come il pioniere Maurizio Scotto di Santolo.
Ancora nel dopoguerra, qualche armatore procidano – come i fratelli
Muro, Pasquale Mazzella e i fratelli Allocco – tenta l’avventura
del nuovo sistema di propulsione, abbandonandola, però, ben presto:
da quel momento, sarà la più “ardita” marineria montese a prendere
il sopravvento.
(immagini: A) brigantino a palo "La Fiducia" (armatori Fevola) sullo
scalo del cantiere;
B) equipaggio, nella quale la freccia rossa indica il comandante
Vincenzo D'Ambrosio)
Inviato da:
vocedimegaride - Commenti: 1
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Inviato da Anonimo
il 23/06/07 @ 13:19
Spero che, con la pubblicazione di questo
articolo sulla marineria procidana ( e dopo la recente rivalutazione
della Marina Militare Borbonica) si delinei sempre piu' la perizia,
la abilita', il coraggio ed il bagaglio di cognizioni tecnico-scientifiche
che avevamo nel periodo borbonico.
Bravo Sergio per averci regalato un piccolo estratto del tuo libro.
Antonio Ambrosino
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N°354 del 12-06-2007 - 10:50
Tags: Storia-Miti-Eroi
Unità
d'Italia: un documento d'epoca
SCOMUNICA MAGGIORE
AI SAVOIA lanciata dal Sommo Pontefice Pio IX il 26 Marzo del 1860
(omissis) Dichiaro che tutti coloro, i quali hanno perpetrata la
nefanda ribellione nelle provincie del Nostro Stato Pontificio,
e la loro usurpazione, occupazione ed invasione ed altre cose simili,
di cui abbiamo fatto querela nelle mentovate Nostre Allocuzioni,
oppure hanno commesso alcuni tali cose, come pure i loro mandanti,
fautori, aiutatori, consiglieri, aderenti o altri quali si siano,
che hanno procurato sotto qualsiasi pretesto e in qualsivoglia modo
l'esecuzione delle cose predette, ovvero le hanno per sè medesimi
eseguite, hanno incorso LA SCOMUNICA MAGGIORE, e le altre CENSURE
e pene ecclesiastiche inflitte dai Sacri Canoni, dalle Costituzioni
apostoliche, e dai decreti dei Concili Generali, e se fa bisogno
di bel nuovo li Scomunico ed Anatematizzo. Parimente dichiaro, aver
essi con ciò stesso incorso egualmente le pene della perdita di
tutti e di qualunque siansi i privilegi, grazie ed indulti loro
in qualsivoglia modo concessi da Me o dai Romani Pontefici Miei
predecessori; e non poter eglino essere assolti e liberati da siffatte
censure DA NESSUNO, fuorché da Me o dal Romano Pontefice che allora
sarà; ed inoltre esser eglino inabili ed incapaci di conseguire
il beneficio dell'assoluzione, fino a tanto che non abbiano pubblicamente
ritrattato, rivocato, cassato ed abolito tutti gli attentati in
qualsivoglia modo commessi, e reintegrata ogni cosa pienamente ed
efficacemente nello stato di prima, o prestata in altra maniera
la dovuta e condegna soddisfazione nelle cose predette alla Chiesa,
ed a Noi, e a questa Santa Sede, ma che sempre saranno e sono a
tali cose obbligati, affine di potere conseguire il beneficio dell'assoluzione.
Comando che copie delle stesse lettere anche stampate e sottoscritte
dalla mano di qualche pubblico Notaio, e munite del sigillo di qualunque
persona costituita di dignità ecclesiastica, si presti la fede medesima
in tutti i luoghi ed in TUTTE LE NAZIONI, tanto in giudizio, quanto
fuori di esso, quale si presterebbe ad esse presenti, se fossero
esibite o mostrate.

Dato in Roma presso S. Pietro sotto l'anello
del Pescatore il giorno 26 Marzo del 1860 del Nostro Pontificato
l'anno decimoquarto. Pio Papa IX.
Inviato da:
vocedimegaride - Commenti: 1
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Inviato da Anonimo
il 12/06/07 @ 11:05 via WEB
approfondimenti poco noti al volgo al link http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=12424
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N°338 del 03-06-2007 - 09:52
Tags: Storia-Miti-Eroi
Acque
chete
di Clara Negri

I Campi Flegrei
sono ricchi di laghi e laghetti che hanno costellato il lungo viaggio
degli eroi dell’antica Grecia. Il lago più famoso è senza dubbio
l’Averno, circondato un tempo da una fittissima foresta, le cui
acque esalavano vapori di zolfo tanto densi da soffocare i volatili
che si soffermavano sulle sue rive. I greci battezzarono questo
luogo col nome di Aornon, che vuole appunto dire: senza uccelli.
Sulle rive del lago vi era un antro da cui si diceva che le anime
morte discendevano nel regno delle tenebre per non risalire mai
più in superficie. Da questo ingresso soltanto tre eroi poterono
entrare ed uscirne vivi: Ulisse, dietro consiglio della maga Circe,
per evocare lo spirito di Tiresia e conoscere il suo futuro. Enea,
dietro consiglio della Sibilla Cumana per evocare il padre morto,
e Annibale, allorché implorò Plutone di distruggere Roma. Enea,
per scendere negli Inferi, dovette prima adempiere alcune condizioni
impostegli dalla Sibilla, fra cui la sepoltura del trombettiere
Miseno e l’offerta del ramoscello d’oro a Proserpina, moglie di
Plutone. La discesa nell’Ade fu accompagnata dai laceranti latrati
delle cagne di Ecate, la luna infernale, e dalla visione di spaventevoli
mostri che rappresentano i mali dell’umanità: la fame, la morte,
la paura, la miseria, la guerra…Nel viaggio egli incontrò Didone,
l’amata che si suicidò per il suo abbandono, e tanti eroi troiani
prematuramente scomparsi. Dopo un lungo cammino vide finalmente
venirgli incontro il padre Anchise, che per ben tre volte si schernì
al suo tentativo di abbracciarlo, e che poi gli svelò la grande
missione che aveva da compiere e il futuro dei grandi re di Roma
che un giorno avrebbero governato il mondo intero. Il lago Lucrino
fu considerato la Palude Stige da cui nasceva il fiume omonimo.
In quelle acque Teti immerse il figlio Achille per donargli l’immortalità,
tenendolo però per il tallone, unico punto del corpo che rimase
vulnerabile e che fu poi colpito dalla mortale freccia nemica. Dallo
Stige nasceva il fiume omonimo che si avvolgeva per ben nove volte
attorno all’Ade onde impedire alle anime dei defunti ogni possibilità
di risalire nel mondo dei vivi. Il Fusaro, separato da Lucrino da
una stretta lingua di terra, aveva la foce da cui scaturiva l’Acheronte,
“il fiume del lamento”, e il Cocito, il fiume “compianto”. Su questo
fiume il vecchio Caronte, dietro compenso d’un obolo fisso, traghettava
le anime dei defunti, se però avevano avuta degna sepoltura. Il
suo aspetto era demoniaco, “spaventoso e sozzo/ a cui lunga dal
mento, e incolta, e irta/ pende canuta la barba: Ha gli occhi accesi/come
di bragia. Ha un groppo al collo/appeso a un lordo ammanto e con
un palo/ ch’egli fa da remo, e con la vela regge/ l’affumicato legno,
onde tragitta/ sull’altra riva ognor la gente morta” Il Marmorto,
che si trova subito dopo Miliscola, secondo gli antichi, nel mondo
sotterraneo attraversava i Campi Elisi , luogo dove soggiornavano
i giusti, “le fortunate genti/ parte in su prati e parte in su l’arena/scorrendo,
motteggiando vari giuochi /di piacevole contesa esercitando” Eneide
libro VII. E le sue acque, non appena venivano bevute dalle anime
prossime a reincarnarsi, avevano il misterioso potere di far dimenticare
il passato. “L’anime, a cui dovute/sono altri corpi, a questo fiume
accolte/ bèon dimenticanze e lunghi oblii/ de l’altra vita…” Lo
stesso Capo Miseno, vicino al Mar Morto, aveva una fama sinistra
ed era considerato estremamente pericoloso sia per la sua vicinanza
al fiume infernale e sia per le grotte profonde e misteriose dove
i Tritoni uccisero il figlio di Eolo, chiamato appunto Miseno, compagno
di Ettore e trombettiere di Enea. Lì Enea, dietro consiglio della
Sibilla Cumana, fece cremare le spoglie del povero giovane e, posatele
in un’urna, le depose in un mausoleo appositamente costruito sulla
roccia, che da quel giorno prese definitivamente il nome di Miseno.
Inviato da:
vocedimegaride - Commenti: 2
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Inviato da Anonimo
il 03/06/07 @ 11:39
ma com'è possibile che con tutta questa
Storia, Civiltà, Cultura che definiscono la nostra Identità,
ci siano ancora in giro quei deficienti (che spesso piombano pure
a darci lezioni di moralità su questo giornale) che invece
di portare rispetto alle proprie radici, si divertono a squassare
ancor più l'Identità nonostante l'evidenza dei nostri
illustri trascorsi, credendo che la politica attuale sia la panacea
della Dignità, affidata esclusivamente a Prodi o a Berlusconi...
che c'entrano come i cavoli a merenda con l'Identità sacra
di un popolo?
Carmine
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Inviato da Anonimo
il 03/06/07 @ 11:54
Caro Carmine, purtroppo ci coviamo in seno,
da immemore tempo, una stirpe di mercenari e di pagnottisti che
si nascondono dietro le insegne dei vari partiti politici, senza
aver coscienza di se'. Questo "foglio" anche si tramuta
spesso in un bollettino di denunce - comunque equamente spartite
tra sinistra e destra quando la sinistra o la destra ci offendono
- ritiene molto utile insistere sulla Cultura, la Civiltà,
l'Identità, le Radici, per invogliare alla consapevolezza
chi in maniera superficiale ritiene che il PRESENTE sia il solo
metodo di confronto con la società ed anche per mantenere
vive le nostre peculiarità che da secoli la Politica tenta
di annientare. In giro sulla web si incontrano, ormai, solo negazioni
e volgarità sui valori che noi vogliamo tenere in vita e,
la cosa peggiore, è che se il razzismo anti-meridionale con
tutti i suoi luoghi comuni sulle nostre genti era prerogativa dei
"nordisti"; oggi, è stupido attivismo dei meridionali
medesimi, purtroppo.
marina
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N°264 del 15-04-2007 - 11:19
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Storia-Miti-Eroi
Fantasmi
e "munacielli"
(II.a parte)
di Clara Negri
Non abitate
quella casa!

Chi andrebbe
mai a pensare che un innocente trasloco in una villa vecchia di
qualche secolo o in un appartamento nel quartiere storico d’una
città, ci faccia andare incontro a brividi e batticuori dovuti alla
presenza di ospiti non desiderati? Eppure proprio quei luoghi, depositari
di antiche memorie, più spesso di quanto crediamo, sono infestati
da entità o - chiamiamoli pure col loro nome - fantasmi, che non
mostrano alcuna intenzione di abbandonare l’aldiqua per andare nell’aldilà
e, per di più, che non hanno alcuna remora di venir scoperti dai
malcapitati “intrusi”, colpevoli di esser penetrati nei loro sancta
sanctorum, disturbando la ripetizione ossessiva di un giorno o di
un’ora in cui si è conclusa, spesso tragicamente, la loro storia.
Non sempre però è possibile risalire al mistero dei fantasmi che
infestano specifici luoghi, e i viventi che hanno la ventura d’imbattersi
in essi ne riportano un ricordo incancellabile e non troppo piacevole.
Una storia impressionante, anche se per ovvie ragioni confessata
solo ad amici e parenti, capitò a un ingegnere romano che, tempo
addietro, fu trasferito a Napoli, assieme alla famigliuola, per
ragioni di lavoro. E quale fortuna più grande dovette sembrargli
l’affitto, ad un prezzo davvero “stracciato”, di quella grande casa
in un palazzo monumentale del cuore di Napoli? Quando egli vi s’installò,
con moglie e tre figli, ringraziò il suo santo protettore per quei
trecento metri quadrati di appartamento, decorati con affreschi
sotto le antiche vôlte e con pavimenti e camini di marmo pregiato,
che costavano un fitto corrispondente a un misero trivani nel suburbio
della città. Ma la gioia per la nuova sistemazione durò ben poco.
Nelle ore notturne dedicate al riposo, genitori e figli si svegliavano
immancabilmente a causa di misteriosi colpi battuti sul muro, di
gemiti, sospiri e soffi freddi che parevano provenire da finestre
mal chiuse. Ci volle un po’ di tempo per capire che quella casa
era già abitata da qualcuno che non gradiva intrusi e che non si
faceva scrupolo di far avvertire la sua presenza a grandi e a i
piccini i quali, poco dopo, si rifiutarono di dormire nella loro
stanza e pretesero di rifugiarsi nel grande letto dei genitori.
L’ingegnere, la cui razionalità veniva accentuata dalla sua professione,
filosoficamente pensò che ogni medaglia ha il suo rovescio e che,
se era necessario, ed oltre tutto economico, si poteva anche convivere
con un fantasma. Cosicché, nonostante la perplessità della moglie
e i visi spaventati dei bambini, decise di tener duro. Le notti
però divenivano sempre più infernali e, a un certo punto, cominciarono
a spostarsi mobili e sedie da soli, a trillare invisibili campanelli,
ad aprirsi i cassetti della credenza che poi gettavano a terra tutto
il loro contenuto. L’ingegnere, che non voleva ignominiosamente
capitolare dando alla famiglia una pessima immagine di sé, a questo
punto promise soltanto che, con calma, avrebbero cercato una nuova
abitazione. Fu proprio la notte successiva a questa promessa che
egli si svegliò improvvisamente, sentendosi scuotere per un braccio.
Aprì gli occhi nella stanza scura e vide un’ombra incappucciata
china accanto a sé e che, in dialetto napoletano, minacciosamente
gli sussurrò: “ma che aspetti per andartene? Che ti portino in quattro?”
All’oramai terrorizzato inquilino bastò un secondo per capire il
significato di quella minaccia: sono infatti portati da quattro
persone soltanto i cadaveri nella bara. Spaventato a morte e col
cuore che gli batteva da scoppiare, attese con impazienza le prime
luci dell’alba e poi, senza dir niente, quello stesso mattino uscì
alla ricerca disperata d’una casa più piccola, con un fitto triplicato,
ma possibilmente nuova e senza abitatori invisibili!
Inviato da:
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N°261 del 14-04-2007 - 14:32
Tags: Storia-Miti-Eroi
Fantasmi e "munacielli"
(I.a parte)
di Clara Negri
Napoli è una
città popolata da moltissime leggende, fantasmi e “munacielli. Questi
ultimi, oramai passati nell’aldilà, non si capisce perché mai ancora
non si allontanino da qua. I palazzi infestati sono numerosissimi,
a cominciare da quello di Piazza Aurelio Padovani, attualmente chiamata
S.ta Maria degli Angeli, palazzo già famoso per la morte tragica
e improvvisa di chi le dette il nome in origine, e da un appartamento
che si trova al quarto piano della scala a destra. In questa casa
composta di tre grandi stanze, stanzini e stanzette più un “mezzanino”
cui si accede da un’immensa cucina, almeno sino a pochi anni fa
accadevano strane cose, fra cui l’apparizione notturna di orridi
fantasmi i quali, anziché essere ricoperti dal bianco tradizionale
lenzuolo, si mostravano come orribili scheletri ambulanti, terrorizzando
i poveri e ignari abitanti. Dopo aver involontariamente assistito
a queste poco piacevoli apparizioni, a strane lettere e parole che
comparivano sui muri nelle ore serali e notturne per poi sparire
l’indomani, e dopo aver sentito rumori di passi in stanze assolutamente
vuote e aver osservato ombre che prendevano forma di corna, quelli
che vivevano nell’appartamento poco dopo se la davano a gambe, scegliendo,
da quel momento, solo palazzi di nuova costruzione… Persino un convento
si dice sia infestato, nella fattispecie quello dei Gerolamini,
da quando vi entrò “Don Carlo Ulcano, Cavaliere della città di Sorrento
e Nobile di Napoli”. Da quel momento i poveri fraticelli persero
la loro pace perché cadevano sassi dai soffitti, si udivano misteriosi
rumori di catene e di passi mentre alcuni frati si ritrovarono persino
le sottane cucite l’una all’altra. Non bastarono gli esorcismi e
le benedizioni dei frati e tutto cessò solo quando Don Carlo fu
gentilmente invitato a tornarsene da dove era venuto. I riti funebri
nascono giust’appunto dal tentativo, presso l’uomo arcaico, di difendersi
dai fantasmi che nutrono desiderio di vendetta oppure dal tentativo
di propiziarseli, evitando così di essere perseguitato dalla loro
presenza o dalle eventuali cattiverie contro i viventi. E’ documentato
che, quando si presenta uno spettro, se vi sono cani nelle vicinanze,
essi uggiolano e tremano di paura. Per gli studiosi questa è la
migliore conferma della realtà del fenomeno perché i cani non possono
essere suggestionati dall’uomo né, tanto meno, i gatti, che rizzano
il pelo, seguono con gli occhi figure invisibili e soffiano di paura
anch’essi! Ecco perché molti condividono in pieno il pensiero di
Leo Talomonti, grande esperto del paranormale, il quale dice che
presso alcuni individui vi è “il rifiuto sistematico del meraviglioso”
(continua)
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N°234 del 02-04-2007 - 11:24
Tags: Storia-Miti-Eroi
Pulcinella
di Clara Negri

Pulcinella,
la famosa maschera napoletana, secondo alcuni avrebbe per patria
Acerra, paese cui si attribuisce anche la nascita del suo inventore,
il sarto Andrea Calcese, che l’avrebbe creata nel 1600. In effetti
però Pulcinella risale alla Commedia dell’Arte che ebbe la sua fioritura
nel secolo precedente e, quasi certamente, alla fantasia creativa
dell’attore Silvio Fiorillo. Probabilmente fu proprio costui a trasformare
in maschera comica un tipo precedente che apparteneva alla tradizione
napoletana popolare. Lo studioso Maiuri ci ricorda che un tempo
vi era, in provincia di Caserta, la città di Atella, a cui “il destino
riserbò una fama burlesca”, essendo considerata la culla del teatro
comico del nostro paese.Maschere e personaggi burleschi avevano
infatti incontrato un grande favore presso i romani, fin quando
le .trame troppo licenziose furono proibite alle autorità della
Capitale. Buccus, Pappus, Maccus erano i nomi di alcune maschere
e proprio l’ultimo si sarebbe più tardi trasformato in Pulcinella.
Il suo nome si fa derivare dal diminutivo pulcino, e ricalcherebbe
le origini contadine
del personaggio, così come ricorda il suo naso
a punta, che sembra proprio il becco d’un pulcino, mentre il camicione
bianco imita le vesti dei villani del tempo. L’abito candido, la
maglietta rossa e la maschera nera sul viso hanno fatto definire
Pulcinella La maschera del mondo. Nei significati esoterici dei
colori non è superfluo ricordare che il bianco e il nero sono proprio
i colori del giorno e della notte, del sole e della luna, mentre
il rosso è il colore del fuoco e del sangue, quindi del principio
di vita. Se col tempo la maschera ha subito infinite variazioni,
divenendo a volte grassa a volte magra, a volte panciuta a volte
gobba, a volte ridente a volte piangente, la sua continua ambivalenza
ha letteralmente affascinato il mondo intero, ispirando sia la Commedia
dell’Arte che gli artisti delle varie epoche. Perché Pulcinella
non rappresenta solo la comicità napoletana verace ma, anzitutto,
l’uomo eternamente tartassato dai marosi della vita che, per non
venirne travolto, deve usare ogni astuzia e ogni sistema per mantenersi
a galla. Così Pulcinella è il furbo, l’indolente, l’opportunista,
l’avido, il chiacchierone, il ladruncolo, il disonesto per necessità
di adattamento e non per vocazione. Egli è l’eterna marionetta manovrata
dall’invisibile burattinaio ma rassegnato e in fondo indifferente
al bene quanto al male, filosofo distaccato pronto a ridere degli
altri come a ridere di se stesso. Non ci meraviglieremo quindi di
sapere che questa maschera ha avuto una larga diffusione anche all’estero,
divenendo Polichinelle in Francia, Punch in Inghilterra, Petruska
in Russia, Kasperle in Austria e così via. O che essa abbia ispirato
artisti famosi come Ludovico Carracci, Antoine Watteau, Gian Domenico
Tiepolo (vedi immagine), Alessandro Magnasco, Pablo Ricasso e Gino
Severini, tanto per fare qualche nome. nota della redazione: per
approfondimenti storici e culturali si consiglia una "visita" al
Museo di Pulcinella www.pulcinellamuseo.it
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N°193 del 06-03-2007 - 19:57
Tags: Storia-Miti-Eroi
La Cappella
Sansevero
di Clara Negri
La Cappella
Sansevero, ubicata nel cuore dell’antica Napoli dietro la Chiesa
di S. Domenico Maggiore, esprime l’ambiguo aspetto della natura
di Raimondo de Sangro, rimasta incomprensibile nella sua totalità.
Questa Cappella di famiglia, che rispecchia il Barocco del ‘700
napoletano, dal nostro principe fu fatta ristrutturare e decorare
tra il 1749 e il 1766 dai più grandi artisti dell’epoca i quali,
ovviamente, operarono tutti sotto la sua specifica direzione. L’aspetto
più insolito e interessante di questa Cappella è rappresentato dai
numerosi gruppi scultorei, veri e propri capolavori sia per la bellezza
che per il simbolismo iniziatico di origine egizia e massonica che
può venir dipanato solo dopo un’attenta e progressiva osservazione.
Nella cripta della Cappella vi sono poi le famigerate “macchine
anatomiche”, tuttora oggetto di dispute e controversie da parte
degli studiosi perché sono in molti a sostenere che, ben lungi dall’essere
macchine create dalla fervida fantasia e abilità di don Raimondo,
esse siano i resti di due schiavi negri, un uomo e una donna, a
cui egli avrebbe iniettato da vivi una sostanza atta a metallizzarne
il sistema venoso e arterioso. Macabre fantasie popolari. La morte
di Raimondo de Sangro fu misteriosa quanto la sua vita. Ufficialmente
avvenne a causa di un’infezione a una mano contratta nel corso di
esperimenti alchemici, ma dal popolino la storia viene raccontata
in altro modo. Poiché il suo cadavere non fu mai ritrovato, la leggenda
asserisce che nei sotterranei del suo palazzo avesse scoperto il
segreto dell’immortalità. Come Osiride, il dio egizio, si dice che
il Principe chiedesse a un servo fidato di essere tagliato in quaranta
pezzi e rinchiuso in una cassa posta in un luogo nascosto del suo
laboratorio col patto di non aprirla prima di quaranta giorni. Ma
la sua sparizione destò sospetti per cui i suoi familiari, dopo
aver cercato per ogni dove, si imbatterono nella cassa e dettero
ordine di aprirla, prima che scadesse il tempo previsto, lasciando
incompleta la saldatura del corpo. Raimondo allora tentò invano
di sollevarsi ma con un orribile urlo cadde all’indietro e morì
dannato. Realtà o fantasia? A voi la risposta.
la foto de "Il Disinganno" ed il documentario "La Cappella Sansevero"
sono di:
V.I.P.Edizioni Grafiche di Mauro Caiano
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Inviato da adrianaaa85
il 06/03/07 @ 22:11
che bello questo blog!! io sn della prov di napoli! :) ciao ciao kiss
adry PS.belle foto!!
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N°184 del 26-02-2007 - 18:59
Tags: Storia-Miti-Eroi
per la serie
"I VIP partenopei" Raimondo de Sangro principe di Sansevero
di Clara Negri
Raimondo de
Sangro Principe di S. Severo, filosofo, scrittore, appassionato
di fisica, alchimista, astronomo, uomo d’arme, filantropo, inventore
e grande iniziato, è certamente una delle figure napoletane più
conosciute, ammirate e temute nel corso degli ultimi tre secoli.
Nato a Torremaggiore il 30 gennaio del 1710, egli è poi vissuto
a Napoli sino al giorno della sua misteriosa morte. Misteriosa come
i suoi studi, il suo comportamento, le sue abitudini che gli hanno
creato una fama discutibile sì, ma certamente molto duratura… Raimondo,
o per meglio dire "don Raimondo", come viene ancora chiamato dai
suoi numerosi ammiratori, resta un polo d’attrazione per la città
di Napoli e sia la Cappella di famiglia da lui fatta ristrutturare
in modo personalissimo, sia il palazzo che gli ha dato i natali
sono tuttora meta di numerosi turisti e di attenti ricercatori.
Il suo casato risale addiritura ai Normanni ed egli, venuto al mondo
terzogenito della sua illustre famiglia - che vide i primi due figli
morire in età tenerissima - si distinse subito non soltanto per
l’acuta intelligenza ma anche per il suo carattere fermo e ribelle
che nessuno riuscì mai a dominare. Il curriculum scolastico di questo
Archimede pitagorico fu brillantissimo, così come la beve parentesi
militare che lo vide volontario contro gli eserciti austriaco e
piemontese. Le lingue da lui conosciute erano “appena” dieci: italiano,
spagnolo, francese, tedesco, inglese, ebraico, latino, egiziano,
siriano, arabo! Ma la sua mente creativa valeva almeno cento perché
egli fu capace di inventare un enorme numero di cose: il sangue
artificiale, dei nuovi colori, fra cui il verde, per i fuochi di
artificio, le stoffe impermeabili per permettere ai Borbone di partecipare
alle battute di caccia anche sotto la pioggia, la contraffazione
di pietre preziose e pietre dure che colorava o decorava a piacimento
e poi, con un metodo rimasto segreto, la marmorizzazione del legno.
(fino a qualche decennio fa nell’ingresso del Circolo della Stampa
si poteva ancora ammirare un piccolo tavolino circolare il cui ripiano
era formato da un pezzo d’albero trasformato in marmo) ed altre
cose ancora. Nelle arti marziali era riuscito persino a scoprire
una particolare lega metallica, simile al cuoio, che rendeva molto
più leggeri i cannoni e quindi il loro trasporto nelle campagne
militari. E si vantava anche di aver reso potabile l’acqua di mare,
di aver costruito una carrozza che correva sulle acque come se fosse
sulla terra ferma e di aver costruito una lampada eterna, alimentata
da una sostanza misteriosa a cui era stata aggiunta polvere di crani
umani… E si diceva che avesse impalato più di mille nemici, che
avesse costruito sette sedie con la pelle di sette cardinali, che
avesse fatto accecare lo scultore Sammartino per impedirgli di ripetere
una scultura stupenda come il Cristo velato che si trova nella sua
Cappella, che dagli enormi finestroni che danno sul vicolo S. Severo
apparivano lingue di fuoco, bagliori, luci infernali e si udivano
rumori sordi e boati che facevano vibrare il selciato e le mura
del palazzo. Dicerie popolari di sfrenata fantasia. La sua vita
rispecchia l’epoca in cui ha vissuto, periodo d’oro per la città
di Napoli, a quel tempo capitale del Regno delle Due Sicilie e nucleo
propulsore del movimento artistico, scientifico e culturale di tutta
Europa. Amico di Carlo III di Borbone, e nelle buone grazie del
Pontefice di allora, in realtà don Raimondo ebbe il privilegio di
accedere ai libri segreti gelosamente custoditi nei sotterranei
della Biblioteca vaticana e, probabilmente, fu proprio grazie alla
consultazione di vecchi testi – che tuttora potrebbero essere una
vera e propria fonte di conoscenza e di potere – a permettergli
le sue straordinarie realizzazioni che tanto spaventavano il popolino.
Ecco perché, egli ha reso la sua esperienza umana una leggenda degna
del più emozionante thrilling di Alfred Hitchock! Sposatosi felicemente
con la duchessa Carlotta Caetani d’Aragona, dopo quattro figli che
sopravvissero per un tempo brevissimo, ebbe infine l’agognato discendente.
Morì nel 1771 ma la sua biografia non sarebbe molto diversa da quella
di tanti personaggi d’un certo lignaggio se il nostro don Raimondo
non avesse avuto curiosità e abilità davvero eccezionali. Questo
inquietante personaggio, tuttora temuto o venerato, aveva decisamente
molto sangue blu: Marchese di Castelnuovo, Principe di Sansevero,
marchese di Castelvecchio, Duca di Torremaggiore, Principe di Castelfranco,
Signore degli antichi castelli di Fiorentino e Dragonara, egli fu
capace di scatenare a tal punto la fantasia popolare che ancora
oggi è difficile separare la realtà dalla più macabra fantasia.
Nel 1750 entrò in Massoneria e dopo appena un mese venne nominato
Gran Maestro per il Regno di Napoli. Nell’anno successivo però,
per le pressioni papali, re Carlo di Borbone mise fuori legge la
massoneria e nominò un consigliere di vigilanza su tutto il territorio.
E don Raimondo, prima ancora che gli arrivasse il veto, abiurò la
sua appartenenza alla setta e volle confessarsi per essere assolto
dalla Chiesa. Ciò nonostante, per non aver rivelato alcun segreto
della Massoneria, nonostante l’abiura, fu visto di malocchio dai
suoi contemporanei che subito lo considerarono in odor di zolfo.
Questo ambiguo aspetto della sua natura viene esaltato nella creazione-ristrutturazione
della Cappella Sansevero. L’aspetto più insolito e interessante
del luogo è rappresentato dai numerosi gruppi scultorei, veri e
propri capolavori sia per la bellezza che per il loro simbolismo
iniziatico di origine egizia e massonica che viene dipanato solo
dopo un’attenta e progressiva osservazione. Cosa di cui parleremo
la prossima volta.
(Le immagini del Cristo Velato sono di Mauro Caiano/V.I.P.Edizioni-Napoli)
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N°181 del 25-02-2007 - 00:06
Tags: Storia-Miti-Eroi
Il Garibaldi di Piero Angela

Questa sera
per l'ennesima volta il PONTIFICATORE MAGNO ... cioè colui che sa
TUTTO ... ovvero il MAGINIFICO Piero Angela ci ha proposto la solita
storiella scolastica sull'"EROE DEI DUE MONDI" . Con l'ausilio delle
immagini registrate della puntata serale la redazione di "VOCEDIMEGARIDE"
tra qualche giorno, rielaborando le immagini della RAI, si propone
di presentare agli amici meridionalisti una versione "diametralmente
opposta" della storia dell'"EROE DEI DUE MONDI". Quindi un cordiale
saluto a tutti ed una preghiera di seguirci nella prossima settimana.
Mauro Caiano P.S.: Chiunque sia in grado di fornire documentazione
"STORICA" sulla "Epopea Garibaldina" è pregato di mettersi in contatto
con noi scrivendo a :
redazione@vocedimegaride.it
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Messaggio
N°157 del 10-02-2007 - 12:15
Tags: Storia-Miti-Eroi
Il
Giorno della MIA Memoria
di Gigio Zanon, dalla Serenissima

Era finita la
guerra da pochi mesi ed eravamo ancora occupati dagli alleati. Vicino
a casa mia c’era un ex convento di pertinenza della chiesa dei Tolentini,
dei frati Teatini, che era stato soppresso dalle famigerate leggi
napoleoniche ed adibito a caserma. Prima, c’erano i militari italiani
di non so quale specialità ma poi fu occupato dagli inglesi. Davanti
a questo ex convento c’era uno spiazzo, che chiamavamo “campazzo”
dove noi ragazzi della zona si andava a giocare. Allora abitavo
in campo della Lana e la chiesa dei Tolentini era la mia parrocchia.
Un giorno, all’improvviso, gli inglesi se ne andarono e si trasferirono
sui locali di pertinenza del porto perché, ci avevano detto, stavano
per arrivare dei profughi e i locali dell’ex convento servivano
per loro. Inoltre gli inglesi dovevano sorvegliare questi profughi,
ma noi ragazzi non ne capivamo il motivo. Solo, ci accorgemmo che
nel nostro “campazzo” si erano installati gli stessi uomini con
il bracciale rosso sulla manica che qualche mese prima scorazzavano
per Venezia a caccia di fascisti e di tedeschi. Ci dissero che quelli
che arrivavano erano gente che non era italiana, erano degli “sciavi”
traditori e che venivano lì sistemati in attesa di trasferirli in
altri luoghi perché a Venezia non li volevano. Ci “consigliarono”
anche di non trattare con loro nella maniera più assoluta perché
era gente per nulla raccomandabile e che se ci avessero visto giocare
o parlare con qualche ragazzo avrebbero preso dei provvedimenti
contro di noi… Dopo qualche giorno arrivarono. Erano donne, vecchi,
ragazzi come noi, bambini piccoli, si portavano dietro dei sacchi
e alcune valige. Era una fila interminabile. Saranno stati qualche
centinaio. Una volta dentro, gli uomini dal bracciale rosso (che
poi seppi che erano i partigiani della Garibaldi, sezione Ferretto)
li accolsero con grida, sputi, spintoni, imprecazioni, quindi chiusero
le porte dell’ex convento e rimasero fuori di guardia. Ogni giorno
arrivavano militari, uomini ben vestiti, certi con il bracciale
rosso ed altri con un bracciale verde, ed altri ancora. Dalla parte
del canale – perché su due lati l’ex convento era circondato dall’acqua
– ogni giorno arrivavano barche sorvegliate dagli inglesi che scaricavano
sacchi con roba da mangiare. Passarono così un paio di mesi, poi
riaprirono le scuole ed eravamo già ad ottobre. Mio padre – fortunatamente
– non mi fece mai andare nelle scuole pubbliche, ma dai preti Cavanis.
Quell’anno ero in terza elementare. Verso i primi giorni di dicembre,
alla chetichella, si aggiunsero a noi e nella nostra stessa classe
sei di quei ragazzi che abitavano nell’ex convento e che avevamo
conosciuto solo perché noi giravamo per i canali con la nostra barchetta
e loro erano sempre affacciati alle finestre, dalle quali uscivano
sempre degli odori a noi sconosciuti. Anche il modo di parlare era
diverso dal nostro, seppure ci si capiva benissimo e le parole erano
le stesse. Ovvio che fra ragazzi ci si parlasse, così come fu ovvio
che qualche cosa ci dissero delle loro condizioni e dei motivi per
cui si trovavano in quelle condizioni. Ma da parlare con loro come
Giulietta e Romeo, cioè noi in barca e loro dalle finestre, a poter
dialogare direttamente a tu per tu durante la ricreazione era cosa
ben diversa! I preti se ne accorsero che a noi interessava di più
parlare con questi ragazzi, piuttosto che giocare le nostre solite
partite di calcio. Allora vennero in classe, ed anche nelle altre
classi dove c’erano questi ragazzi, dei signori che ci spiegarono
i motivi di quello che stavamo vivendo e chi veramente fossero quei
ragazzi e i loro famigliari. Erano i Profughi che scappavano dall’
Istria, dalla Dalmazia, ecc. Ma … non ci avevano insegnato che quelli
erano territori italiani? Anzi: ci avevano detto che erano territori
veneziani, perché i confini di Venezia un tempo arrivavano fino
a lì! Ed ora? Perché li cacciavano? Dura da capirla a otto anni!
Ma un po’ alla volta ci arrivammo! E diventammo amici: alla brutta
faccia dei partigiani col bracciale rosso, che intanto avevano cominciato
ad andarsene del campazzo. E così iniziammo a frequentarci, ad essere
amici, a giocare assieme, a vivere assieme. Alle volte loro venivano
a casa mia, o dei miei amici, e alle volte eravamo noi ad andare
a casa loro. A casa loro… delle piccole stanze che una volta erano
le celle dei frati, oppure dei grandi stanzoni con dei divisori
fatti con le coperte sostenute da spago o da fil di ferro. E le
loro mamme e i loro nonni iniziarono a raccontare. I loro padri
non c’erano o perchè erano spariti o perchè qualcuno di loro aveva
trovato un lavoro fuori Venezia. Ma i più erano “semplicemente”
spariti, e c’erano altre persone che da fuori facevano ricerche
su dove fossero. Di alcuni sapevano che erano prigionieri chi in
Germania, chi in Russia, e chi .. chi sa dove… Ogni tanto si sentivano
delle urla e dei pianti di disperazione: erano i famigliari di quelli
dei quali si conosceva la fine: AMMAZZATI E GETTATI DENTRO LE FOIBE,
molti di loro ancora vivi!!! Era la prima volta in vita mia che
sentivo questo nome: foiba! E mi raccontarono! E raccontarono. Raccontarono
di quando, in piena notte, arrivavano i militari Jugoslavi – che
loro chiamavano i “Titini” – a cacciarli fuori di casa con pochi
stracci e le loro case venivano immediatamente occupate dai famigliari
dei titini. Del concentramento che avevano fatto nei pressi dei
moli dei porti di Pola, di Fiume, ecc. durante il trasferimento
dalle loro case al porto, diversi di loro sparivano e non ne sapevano
più nulla. Non ne sapevano più nulla, finchè non vennero a saperlo:
in quel modo che ho citato! Poi furono imbarcati su delle carrette
e messi nelle stive per poi essere spediti come bestie o come merce
nei porti italiani. Io posso dire di come sono stati accolti a Venezia,
perché me lo hanno raccontato loro stessi, non posso dire di come
sono stati accolti negli altri porti, ma da come si è poi saputo,
pare che il trattamento non sia stato differente. Innanzitutto all’arrivo
in rada – fuori dal porto di Venezia – vennero scortati da imbarcazioni
militari con a bordo i soliti dal bracciale rosso. Una volta giunti
a riva, a terra li aspettavano i militari inglesi che li schedavano,
ed assieme agli inglesi c’erano i partigiani. Fuori dei cancelli
e fuori dal recinto del porto c’erano uomini e donne che li insultavano,
li chiamavano sporchi slavi, fascisti, traditori, ecc. ecc. E rimasero
sul molo del porto di Venezia per tutto il giorno e tutta la notte,
finchè all’alba – dopo che i recinti del porto si furono svuotati
dalla gente, li incolonnarono e li scortarono – a piedi, anche perché
il tragitto dal porto non era molto lungo – fino all’ex convento,
dove vennero ammassati. Ogni giorno arrivavano le barche degli alleati
a portare loro il cibo, e non potevano uscire. Solo i ragazzi per
andare a scuola, e poi dentro di nuovo. E così andarono avanti per
un paio d’anni. Ovviamente la sorveglianza si era molto allentata,
anzi: era quasi scomparsa. Ed allora anche l donne e i vecchi poterono
uscire e raccontare!... E molte di quelle donne che prima li offendevano,
poi le vidi piangere nell’ascoltare i loro racconti. E ricordo ancora
molti di quei ragazzi e i loro nomi. Con uno di loro mi sono trovato
imbarcato quando navigavo con le navi dell’Adriatica. Con altri
rimanemmo amici.
 Andando avanti con gli anni, e studiando la storia
di Venezia, venni a sapere che tutti quei territori da cui erano
stati scacciati erano stati da sempre territori veneziani. Specialmente
quelli sulla costa. Ancora da prima che arrivasse Roma repubblicana
e imperiale. Poi ridivennero veneziani sotto la Repubblica Veneta.
Anche se gli ungheri e le popolazioni dei balcani spingevano per
arrivare fino alla costa, quelle furono sempre terre venete! L’ultima
città ad ammainare la gloriosa bandiera di s.Marco fu la città più
meridionale della Dalmazia: Perasto. E la bandiera veneta ancora
giace sotto l’altare del Duomo di Perasto. Poi arrivarono gli austriaci.
E loro, imponendo l’egemonia su tutte le terre da loro sottomesse,
trasferirono gli abitanti dei Balcani e dell’entroterra fino alla
costa, iniziando così una pulizia etnica ante litteram. Al punto
che depredarono moltissimi dipinti dalle chiese di Venezia – a quei
tempi anche lei sottomessa all’impero – per trasferirli nelle chiese
povere della Erzegovina, di Zagabria, ecc... E questa epurazione
durò fino al termine della prima guerra mondiale e al disciolimento
dell’impero austriaco. (Però gli austriaci seppero mettere a buon
profitto l’esperienza dei veneti e dei veneti istriano-dalmati,
specie nella marineria! E la famosa battaglia di Lissa lo può ben
testimoniare! Al punto che quella vittoria venne classificata come
l’ultima vittoria della Repubblica di Venezia! Infatti gli equipaggi
delle flotta austriaca erano formati esclusivamente da veneti e
da veneti-istriano-dalmati!) Allora molti di quei territori ritornarono
ad essere italiani. Finchè non giunsero i comunisti titini slavi
che li scacciarono del tutto. E qui in Italia, anzichè accoglierli
come fratelli, li accolsero con sputi e imprecazioni! Nel nome della
politica e della solidarietà comunista dell’epoca! Ed io ho dovuto
vedere tutto questo: all’età di otto anni! Pensate che me ne possa
dimenticare?

(nella
foto uno dei tanti campi-profughi italiani; quello di Bagnoli-Napoli-campo
IRO)
Inviato da: vocedimegaride - Commenti: 0
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Messaggio
N°156 del 09-02-2007 - 18:32
Tags: Storia-Miti-Eroi
Meridionali
e Istriano-Dalmati: italiani-zavorra
di Marina Salvadore
Chi scrive è
orgogliosa "meticcia", un frappe' identitario, figlia di Partenope
ed anche di profughi della Venezia-Giulia, due volte gabbata dalla
Storia e dal Parlamento Italiano... un'italiana-zavorra, con nel
sangue la maledizione dell'emigrazione (altro che "ebreo errante"!)
che ben due volte dovrebbe essere risarcita: per i danni del falso
Plebiscito napoletano del 1861 e per quelli del trattato di Osimo
del 1975. Ci sarebbe da scrivere una "Treccani" solo in relazione
alla storia dei due genocidi ed agli effetti prodotti da questi
e dalla miope e suina politica tricolore... ma... fa niente; siamo,
entrambi... con i nostri genitori, una zavorra pesante nelle nebbie
dei rispettivi 150 e 60 anni di voluto oblio e la vergogna ancora
più pesante di fregiarci ipocritamente di un tricolore che ci stipò,
entrambi italiani, nelle baracche dei campi-profughi e nelle pance
capienti dei bastimenti di emigranti, come appestati dei quali negare
l'esistenza. I nostri olocausti non hanno uguale dignità dell'unico
OLOCAUSTO riconosciuto e, nel mentre, incombe pure asfissiante,
ipocrita e meschino il duecentesimo del dogma di Garibaldi, a farci
due "bolas" così.... Nel Giorno del Ricordo offro, come una rosa,
un pensiero ed un affettuoso ricordo alle mie serene e belle amiche
d'infanzia napoletane; molte, figlie di "profughi" istriano-dalmati
che approdarono nel napoletano tra Capua e il bosco di Capodimonte,
nei campi di raccolta e nelle baracche di legno e che sono ancora
in attesa d'essere risarciti moralmente e materialmente. Per chi
interessato (è numerosissima la "colonia" istriano-dalmata napoletana...
c'era anche la bella Laura Antonelli (Antonaz) con la sua famiglia...)
rimetto questa scheda tratta dal sito www.leganazionale.it che
vi invito a visitare, per approfondire un altro capitolo di Storia
Negata... che mai sarà - anche questa - inserita tra le pagine dei
libri di scuola dei giovani italiani.
Dobro jutro!
Il Giorno del
Ricordo Alla fine della Seconda guerra mondiale, mentre tutta l'Italia,
grazie all'esercito Anglo-Americano, veniva liberata dall'occupazione
nazista, a Trieste e nell'Istria (sino ad allora territorio italiano)
si è vissuto l'inizio di una tragedia: la "liberazione" avvenne
ad opera dell'esercito comunista jugoslavo agli ordini del maresciallo
Tito. 350.000 italiani abitanti dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia
dovettero scappare ed abbandonare la loro terra, le case, il lavoro,
gli amici e gli affetti incalzati dalle bande armate jugoslave.
Decine di migliaia furono uccisi nelle Foibe o nei campi di concentramento titini. La loro colpa era di essere italiani e di non voler cadere
sotto un regime comunista. Trieste, dopo aver subito più di un mese
di occupazione jugoslava, ancora oggi ricordati come "i quaranta
giorni del terrore", visse per 9 anni sotto il controllo di un Governo
Militare Alleato (americano ed inglese), in attesa che le diplomazie
decidessero la sua sorte. Solo nell'ottobre del 1954 l'Italia prese
il pieno controllo di Trieste, lasciando l'Istria all'amministrazione
jugoslava. E solo nel 1975, con il Trattato di Osimo, l'Italia rinunciò
definitivamente, e senza alcuna contropartita, ad ogni pretesa su
parte dell'Istria, terra italiana sin da quando era provincia dell'Impero
romano. Il 10 febbraio è il giorno che l'Italia dedica alla memoria
della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle Foibe
e dell'Esodo dalle loro terre degli Istriani, Fiumani e Dalmati.
Inviato da:
vocedimegaride - Commenti: 5
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Inviato da Anonimo
il 10/02/07 @ 12:23
Gentile
Marina. L’anno scorso, memore «della tragedia degli italiani e di
tutte le vittime delle Foibe e dell'Esodo dalle loro terre degli
Istriani, Fiumani e Dalmati», riprendendo la frase conclusiva del
suo ammirevole intervento in concomitanza dell’odierna ricorrenza,
feci una promessa a me stesso, quella di ricordare sempre due date,
una delle quali vi riguarda. Non se doveva perdere nemmeno memoria
anche in altri, e così trascrissi le parole di questo sacro impegno
in un breve memoriale insieme a due foto ricordo, e li esposi nel
mio sito «Il geometra pensiero in rete». Queste sono le cose che
qui sono riportate: «Era il tempo in cui l’Italia si preparava per
entrare in guerra, la Grande Guerra. Era il momento felice per l’Italia
della scienza con i successi di Guglielmo Marconi, Nobel per la
fisica nel 1909. Fu anche bello e ricordevole l’esperienza, che
Marconi fece sulle radiocomunicazioni, per Umberto Barbella, fratello
di mio nonno Gaetano, quale sottufficiale imbarcato sulla Regia
Nave Napoli che servì per questa impresa. La foto accanto con la
firma autografa del famoso scienziato ne attesta l’avvenimento (1).
Era il 13 marzo 1914. La guerra divampò feroce di lì a poco e furono
tre anni di immani sacrifici. La Grande Guerra finì e ci fu la presa
di possesso della Base del Comando Navale dell’armata austro-ungarica
dislocata ad Abbazia d’Istria. Il caso volle che fosse il sottufficiale
Umberto Barbella, imbarcato sul R.C.T. Acerbi della Real Marina
Italiana, a sbarcare ad Abbazia per issare il nostro tricolore sul
pennone dell’ex Base Navale degli austro-ungarici. In quei giorni
di giubilo, mai si potevano supporre gli estremi sacrifici cui furono
soggetti i residenti italiani ivi dislocati nel futuro non tanto
lontano che li aspettava dopo la seconda guerra mondiale. Eppure
fu un bel giorno quel 4 novembre 1918 che la foto accanto immortalò
(2). Domani si fa festa perché ricorre il sessantesimo anniversario
della nascita della nostra Repubblica, ma le cose di Abbazia e dell’esperimento
di Marconi tocca a me, come pronipote di chi ne fu interprete e
testimone oculare, onorarle e tenerle salde nella memoria. Fin che
vivrò prometto di farlo. Gaetano Barbella - Brescia, 1 giugno 2006».
Feci contemporaneamente un’altra cosa per onorare l’Italia nell’occasione
della festa dell'indomani della Repubblica, chiesi al Sito internet
delle Forze Armate di pubblicare un’altra mia cara memoria, quella
di mio nonno Gaetano, sopra menzionato. Egli amava tanto la sua
Patria, al punto di idealizzarla nella sua Gina, colei che divenne
la sua sposa, chiamandola in una lettera a lei indirizzata, Italia.
Il sito «ForzeArmate.org» fu così sollecito da esporre proprio il
2 giugno 2006 la lettera in questione.
Chi volesse leggerla, l’indirizzo internet è questo: ForzeArmate.org
Didascalia della foto 1:
«Augusta lì, 13 marzo 1914. Regia Nave Napoli. La firma autografa
è di Guglielmo Marconi, Nobel per la fisica nel 1909».
Didascalia della foto 2:
«Abbazia lì, 4 novembre 1914. Presa di possesso del Comando della
Base Navale austro-ungarica. L'alzabandiera della vittoria»
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Inviato
da vocedimegaride il 10/02/07 @ 12:31
Grazie, a nome di tutti gli italiani di serie
B, per il suo magnifico e nobile ricordo. Attendiamo altre interessanti
sue testimonianze.
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Inviato da Anonimo
il 10/02/07 @ 16:05
Mi
chiedete altre memorie? Anche se non fanno tanto onore ad una certa
Italia per la quale fu versato tanto sangue nella Grande Guerra,
molto del quale era di tanti italiani del Sud che non sapevano nemmeno
perché erano lì al fronte a morire? E sia. Era il 1951 ed avevo
13 anni e vivevo con la mia famiglia a Trento. Fra le cose di quel
periodo che ricordo è la frequentazione di un piccolo laboratorio
di uno scultore del legno, proprio accanto alla mia casa di un corridoio
al primo piano di una ex caserma adibita a civile abitazione. L’artista
gradiva la mia compagnia perché forse si sentiva solo, ma anche
perché intravedeva in me un ragazzo abbastanza intraprendente nel
genere di cose che faceva. E così mi capitò di seguire le fasi di
lavoro di un’opera che gli era stata commissionata. Mi fu detto,
ma è una cosa che ricordo con vaghezza, che era il dono, di alcuni
del Sud Tirolo della Venezia Tridentina, destinato in occasione
del matrimonio di Otto d’Asburgo-Lorena, l’ultimo erede al trono
d’Austria. Il regalo simbolico era un piatto non tanto grande sul
fondo del quale c’erano delle raffigurazioni che non ricordo, però
mi è rimasto indelebile nella mente la scritta che era stata prodotta
sul suo bordo. Si trattava della stampigliatura di tre nomi delle
città più significative della Venezia Tridentina che prima della
Grande Guerra era sotto l’Impero degli Asburgo d’Austria. Erano,
naturalmente, Ala, Trient e Bozen e scritte per giunta in tedesco!
Il piatto poi fu colmato della terra dei tre luoghi e posto nelle
mani di Otto d’Asburgo. Ecco ho detto quanto basta perché possa
destare un legittimo senso di disgusto se posto in rapporto al fatto
istriano per il quale oggi si commemora il ricordo. Non che si debba
però fare di tutta erba un fascio.
Gaetano Barbella
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Inviato
da Anonimo
il 11/02/07 @ 11:44
Gaetano, mi perdoni ma non ho capito il nesso
tra queste sue personali memorie del 51 con i fatti del Giorno del
Ricordo. Anche all'ultimo re d'Italia esule a Cascais furono donate
zolle di terra di regioni italiane sulle quali era stato sovrano
e certamente tanto il Savoia quanto l'Asburgo-Lorena non si può
dire fossero italiani! Invece gli italiani cacciati da Tito e riparati
giustamente in quel che restava dell'Italia furono trattati come
bestie dai loro compatrioti. Ne deduco che il concetto di nazionalismo
o di identitarismo è un optional proprio per gli italiani!
Claudia
____________________________
Inviato
da Anonimo
il 12/02/07 @ 10:23
Cara Claudia, infatti non ha torto - ma a
prima vista - nell’avere delle perplessità su quel “piatto” visto,
per giunta, in base ad una memoria di un ragazzo in me , piuttosto
vaga al momento sulle circostanza relative. Non è così che si può
ravvisare una relazione di ciò che ho raccontato con i fatti del
«Giorno del Ricordo». Tuttavia a monte di quel “piatto”, prima d’altro
ci sono altri ricordi di quando vivevo a Trento. Non erano in pochi,
sopratutto gli abitanti dell’Alto Adige, a non riconoscersi italiani.
In generale quelli del Meridione, poi, erano chiamati, come si sa,
“terroni”, quasi con disprezzo e questo era molto discriminante.
Per altro, non si può negare che il Trentino e Alto Adige godono
di un’autonomia di privilegio, frutto di un vero miracolo dell’allora
intraprendente e sagace De Gasperi, Trentino per eccellenza. Non
bastò il Trattato di Parigi, l’accordo De Gasperi-Gruber, ma ci
volle ben altro per tacitare il terrorismo del BAS e così, fu siglato
il cosiddetto “Pacchetto” per privilegiare definitivamente nel 1972
l’autonomia delle provincie in questione. Tanto c’è voluto solo
per sbiadire - badi non annullare del tutto - il ricordo di un Trentino
e Alto Adige province del Reich, della stagione brigatista di Mara
Cogol e degli anni delle bombe in Sudtirolo. Da parte mia, riallacciandomi
al suo nesso in questione, vedo due realtà apparentemente slegate
fra loro, ma che ho inteso legare emblematicamente con quel “piatto”
della terra di “Ala, Trient und Bozen”. Terre speciali ci sarebbe
da dire, se c’è stato un gran daffare, abbastanza turbolento, in
favore dei trentini “accasati” da De Gasperi in una casa non loro,
con un Trattato dalla raffinata ambiguità degli “italiani”. Ma è
la rievocazione dei primi quarant’anni di autonomia speciale dell’obmann
della Svp, Magnago. L'aveva iscritta tra i meriti-demeriti di Alcide
De Gasperi, rispetto a Karl Gruber, il ministro degli esteri austriaco,
autore con lui del celebre accordo del 5 settembre 1946. Quindi
è una visione di parte e non è di quella veramente italiana, che
però allora non fu vigorosamente rintuzzata. Quale dunque il nesso
fra tutto questo guazzabuglio in favore di una certa gallina dalle
uova d’oro, non per quelli degli “italiani di serie B”, cui si riferisce
spesso Marina, e l’altra gallina, quella istriana, anch’essa dalle
uova d’oro, ma per gli “eredi” di Tito? Il nesso - è una mia idea
- sembra avere origine da una sorta di baratto che sembra sia servito
ai dispositori dell’accordo di Parigi del 5 settembre 1946 per accontentare
la Jugoslavia di Tito nel modo che sappiamo, e ammansire l’Italia
assicurandole in cambio il Trentino e l’Alto Adige del Reich. Con
la differenza, però, che gli altoatesini di lingua tedesca della
vecchia Venezia Tridentina sono stati trattati, direi, con i guanti
gialli e non come gli esuli istriani riparati in Italia e trattati
invece come bestie dai loro compatrioti. Da notare che oggi il Trentino-Alto
Adige, addirittura, formano con il Land austriaco del Tirolo una
Euroregione (Euregio Tirolo-Alto Adige-Trentino). Chiaramente non
osteggio questa interessante realtà che valica le identità nazionali
sia dell’Italia che quella dell’Austria, pur non arrecando tordo
a entrambe, e per giunta dovrei anche gioirne poiché sono nato proprio
a Bolzano. Ma questa nascita, avvenuta nel 1938, trattandosi di
un figlio di meridionali da poco ivi trasferiti per lavoro, non
era altro che uno dei modi previsti per attuare la politica di assimilazione
delle minoranze di lingua tedesca e ladina ed una progressiva italianizzazione
dell'intera regione ex-tirolese, perseguita dal governo fascista.
Italianizzazione che, però, doveva tener debito conto che era anche
il tempo del «passo dell’oca» messa su dal Nazismo proprio nel 1938,
come si sa. Perciò non mi sottraggo dal domandarmi questo: ma quelli
del Trentino-Alto Adige e dell’Istria ora slava, non erano entrambi
figli della stessa Italia? Ma a me sembra un “Italia”, alla luce
di questo atroce dilemma, quella di un cristianesimo del sacrificio
cruento, che ricalca la scelta di Barabba dei giudei al posto di
Gesù, destinato quindi alla crocifissione sul Golgota e, traslando
la cosa, per molti istriani italiani alle Foibe. Dunque è questo
il mistero svelato cui va incontro l’Italia cristiana nei momenti
critici della sua storia? Oppure, scavando nel Mistero, emerge tutto
un passato della prima Italia delle memorie di Erodoto ed altri
noti storici. Un Italia che fu sottratta alla pastorizia dai siculi
di re Italo, chiamati gli “uomini della falce”, chiaramente adoratori
del dio Saturno, perché imparassero a coltivare la terra. E così
l’Italia in questione si chiamò Saturnia Tellus. Ma i sensibili
alle cose dell’esoterismo non amano tanto questo dio che viene descritto
come il distruttore, il padre che si mangia i suoi figli. E «Il
Tempo – dice il famoso maestro di questioni esoteriche, il napoletano
Giuliano Kremmerz (Antonio Formisano) - è una divinità saturniana;
vi si agita dentro lo stesso Saturno. A mezzanotte, la falce dell’inesorabile
e famelico Dio si solleva e cade sulle cose compiute che non hanno
più ritorno: L’onnipotenza di qualunque Nume non può distruggere
né cancellare le cose che sono passate realmente nella vita. L’uomo
può dimenticarle, ma nessun Dio distruttore può fare che non siano
state. Saturno solo può troncarle, falciarle, farle spegnere, ma
non può decretare che non siano esistite. È lui stesso che vi si
oppone - ...». Meno male! Insomma, a quanto pare, l’Italia, di quelli
di serie “B”, “comme ‘a mitte mitte”, è un 69, a causa o a ragione
sia del lato ascoso del cristianesimo, sia del corrispondente lato
dell’agreste paganesimo saturniano. Ma chi bada a queste cose definibili
“poco serie”? Di “serio”, ho letto proprio poco fa sul «Giornale
di Brescia» di oggi di che razza sono i “parenti” slavi della misera
Istria del vile baratto, quelli di Belgrado. Si racconta di una
giovane donna del Montenegrino, Sonjia Roganovic, che ha dato alla
luce un bimbo all’ottavo mese di gravidanza. Il parto è avvenuto
però in un ospedale di Belgrado che ha trattenuto il nascituro fin
tanto che la donna non pagherà il salato conto di ben 550mila dinari
(6500 euro), non essendo in regola con le assicurazioni locali poiché
è in stato di clandestinità. Naturalmente, povera come si trova
quella madre, mai potrà riavere il suo figlioletto. Staremo a vedere
come andrà a finire.
Saluti, Gaetano.
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Messaggio
N°153 del 07-02-2007 - 17:56
Tags: Storia-Miti-Eroi
14
febbraio 1861
di Pompeo De Chiara
GAETA L’ULTIMO
GIORNO DELL’INDIPENDENZA DEL SUD ITALIA PRIMA DI DIVENTARE COLONIA
DEL NORD
Settembre 1860: il re Francesco II di Borbone, costretto
dall'incalzare degli eventi a lasciare Napoli, si ritirò a Capua
stabilendo nella Piazzaforte di Gaeta la base delle operazioni militari.
Perduta anche Capua, il re, la corte ed il corpo diplomatico accreditato
presso il governo borbonico, si rifugiarono a Gaeta. L'esercito
borbonico aveva perduto ogni efficienza bellica. Battuto più dal
tradimento che dal nemico, incalzato dalle truppe piemontesi del
generale Enrico Cialdini, si apprestava a difendere la fortezza
più per salvare l'onore delle armi che per vincere. Le operazioni
d'assedio iniziarono sul fronte di terra il 5 novembre 1860. Il
12 novembre 1860 ci furono altri combattimenti nei pressi di Gaeta
dove poi Francesco II, con gli ultimi 20mila uomini, fu stretto
d’assedio dal 12 novembre 1860 al 13 febbraio 1861, per opera del
generale Cialdini (per la storiografia ufficiale il quinto “Padre
della Patria”, per altri un criminale di guerra) che aveva con sé
circa 18 mila uomini.Il corpo d'assedio era forte di 18.000 uomini
con 1.600 cavalli e 180 cannoni moderni.In media venivano sparate
contro la piazzaforte 500 colpi di cannone al giorno. Il 22 gennaio
1861, i napoletani decisero di riaprire il fuoco. Alle 8 del mattino
un colpo della batteria Regina dette il segnale: fu una giornata
memorabile. La flotta piemontese dovette allontanarsi per i danni
che i colpi della piazza le avevano inferto: oltre 10.000 colpi
furono sparati dai napoletani, a dimostrazione che non si sarebbero
arresi. Il nemico ne sparò oltre 18.000, ma il morale napoletano
rimase alle stelle. Ad ogni colpo echeggiava il grido VIVA IL RE,
e le bande militari intonavano l’inno di Paisiello. Ormai i piemontesi
tiravano soltanto da molto lontano, e non prendevano mai l’iniziativa
di assaltare la piazza: “li
prenderemo per fame” scrisse Cialdini
a Cavour, naturalmente in perfetto francese visto che l’italiano
non era molto contemplato da questi signori. Quando iniziarono le
trattative il vile assassino Cialdini non volle interrompere i bombardamenti,
anzi li rinnovò con maggiore accanimento perché “sotto il tiro dei
cannoni cederanno a condizioni più vantaggiose per noi”, scriveva
ancora il generale a Cavour. Con l’impiego dei modernissimi cannoni
rigati, l’ex avventuriero romagnolo, divenuto generale piemontese,
poté dalla sua comoda poltrona sul terrazzo della modesta villa
privata comprata da Ferdinando II a Mola, far bombardare senza essere
colpito la piazza ed i suoi abitanti. Fu così che a capitolazione
già firmata venne centrata la polveriera della batteria Transilvania,
dove morì l’ultimo difensore di Gaeta. Un ragazzo di sedici anni,
Carlo Giordano, fuggito dalla Nunziatella per difendere la sua Patria.
Egli non ha degna sepoltura, come non la hanno i tremila altri caduti
di caduti di Gaeta. Dal 12 novembre 1860 al 13 febbraio 1861 diecimila
napoletani (lucani, pugliesi, calabresi, abruzzesi, siciliani, campani)
decimati dalle fatiche, dai bombardamenti e dal tifo resistettero,
senza mai piegarsi, ad un assedio condotto da vili quali furono
gli uomini di Enrico Cialdini. Il 14 febbraio il re Francesco II
di Borbone, con la regina Maria Sofia, partiva da Gaeta imbarcandosi
sulla corvetta francese Mouette, fatta venire appositamente da Napoli.
Il monarca, salutato con la salva reale di 21 colpi della Batteria
Santa Maria e con il triplice ammainarsi della bandiera borbonica
di Punta Stendardo, prendeva "la dolorosa via dell'esilio da quella
terra che l'aveva visto nascere". La partenza del Re quel giorno
del 14 febbraio fu la prima di una serie di milioni di partenze
di meridionali alla ricerca della dignità e di un futuro non di
fame nera. E’ bene non dimenticarlo.
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Messaggio
N°145 del 01-02-2007 - 19:56
Tags: Storia-Miti-Eroi
Forcella
di Clara Negri

Una
delle più antiche strade di Napoli è certamente Forcella, così chiamata
perché al termine d’un rettilineo lungo il quale vi è Porta Nolana,
si diramano altre due strade che si aprono a V, ricordando sia la
forma d’una forcina o d’una forca sia quella della lettera Y, anch’essa
simile a una forca o a una forcina.
Ma
la lettera Y , o ipsilon, è principalmente l’emblema della scuola
pitagorica che un tempo aveva sede proprio da quelle parti, conosciutissima
per la sua eccezionale tradizione esoterica. Con la forcella, un
tempo, si catturavano le serpi. La leggenda sostiene che sia stato
dato questo nome alla zona a causa d’un rito propiziatorio compiuto
da Virgilio per allontanare i rettili che, a quel tempo, infestavano
la zona. Prima dell’attuale Porta Nolana vi erano inoltre delle
mura molto più antiche e un’altra porta, chiamata Ferrea. Ed è esattamente
in quel luogo che il nostro sommo poeta, dopo aver catturato una
serpe velenosa, l’avrebbe uccisa e seppellita sotto il manto stradale,
ripetendo così un’antichissima usanza che vuole che il dio, rappresentato
dal rettile, venga imprigionato nel punto dove l’animale viene sepolto,
divenendone forzatamente il guardiano e il protettore. Da quel momento,
sia per il rito, sia per la funzione esorcistica della lettera Y,
non solo le serpi ma nemmeno i vermi furono più visti nella zona.
La lettera Y è però anche un antichissimo simbolo religioso associato
all’Albero della Vita e che, quindi, evoca un universo in continua
rigenerazione e ascensione verso stati spirituali superiori. L’albero
ricorda il rapporto coi tre mondi: quello sotterraneo, per le sue
radici; quello terrestre per il suo tronco, e quello celeste per
i suoi rami e le sue fronde. Ancora oggi, vicino al Forcella, vi
è il Vico della serpe, in memoria dell’esorcismo fatto da Virgilio
e delle tradizioni culturali del tempo. Con l’avvento del cristianesimo
ovviamente questo culto passò subito a quello della Madonna che
schiaccia la serpe sotto i piedi e a essa fu dedicata una chiesa
che si chiama ancora oggi S. Maria d’Agnone, o del serpente. Si
narra che ai due lati dell’antica Porta Ferrea Vigilo avesse posto
anche due teste, l’una ridente e l’altra piangente. Chi per caso
varcava quella porta passando per il lato destro, dov’era la testa
ridente, riusciva in ogni sua impresa, mentre chi passava dal lato
sinistro, dov’era la seconda, andava incontro a un continuo insuccesso.
Fra le tante cose fabbricate da Virgilio per il benessere della
città, vi era anche un magnifico cavallo di bronzo il quale aveva
la funzione di preservare i cavalli dallo sfiancamento e da eventuali
malattie. Si dice che nel Medio Evo questa scultura, per quanto
danneggiata dal tempo, esistesse ancora ma poi venne fusa per farne
campane. Molti però sostengono che la colossale tesa di cavallo
conservata nel Museo Nazionale di Napoli sia quella che resta dell’opera
di Virgilio. Si narra anche che un giorno Virgilio propose al nipote
dell’imperatore Augusto cosa preferisse come dono: un uccello col
quale catturare tutti gli uccelli oppure una mosca che catturasse
tutte le mosche. Marcello si consigliò con Augusto e preferì avere
la mosca che scacciasse le sue consorelle, sempre molto fastidiose
e portatrici di contagi e malattie. Virgilio gi portò una mosca
di bronzo grande come una rana ed essa fu posta prima su una finestra
di Castel Capuano e, successivamente, a Castel Cicala dove, dopo
molto tempo, improvvisamente essa sparì, provocando nuovamente l’invasione
periodica di questi insetti. A Virgilio fu attribuito anche un talismano
a forma di pesce che permetteva di catturare pesci in abbondanza.
Numerose chiese, e non soltanto di quella di Piedigrotta, tradiscono
il loro collegamento con Virgilio e Napoli è forse la città col
maggior numero di chiese al modo (sfido io, con tanti templi pagani
che sono voluti cancellare!), spesso sorte sulle stesse strutture
dei templi pagani. Tali culti sono anche rimasti con l’enorme numero
di strade, quartieri e vicoli che fanno apertamente riferimento
ad essi: lo Spirito Santo, i Miracoli, il Monte di Dio, Via Cupa
Lucifero, Fondaco Frà Diavolo, i Vergini, Via del Purgatorio sono
solo alcuni dei nomi magici della città vecchia, dove gli “iniziati”
di ieri, come quelli di oggi, e certamente anche quelli di domani,
si ritrovavano.
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Messaggio
N°138 del 28-01-2007 - 19:40
Tags: Storia-Miti-Eroi
Storie
di anarchia
di Marina Salvadore
Continua
sul sito www.uldericopesce.com la nobile sottoscrizione della petizione
per la restituzione e la cristiana sepoltura dei resti di Giovanni
Passannante, da presentare al ministro di Grazia e Giustizia Clemente
Mastella, al presidente della Regione Basilicata Vito De Filippo,
al sindaco di Savoia di Lucania Rosina Ricciardi ed all’Arcivescovo
di Potenza Monsignor Agostino Superbo. Riportiamo integralmente
dal sito indicato - che vi invitiamo caldamente a visitare – “C’era
una volta un paese in Basilicata che si chiamava Salvia dove era
nato un uomo: Giovanni Passannante. Figlio di contadini analfabeti,
aveva imparato a fare il cuoco nell’osteria “Croce di Savoia” di
Potenza. Si trasferì a Napoli dove viveva alla giornata.
Nel 1878 con un coltellino cercò di uccidere il re Umberto
I di Savoia. Condannato a morte, la pena gli fu convertita in ergastolo
mentre sua madre ed i suoi fratelli furono immediatamente internati
in un manicomio dove anni dopo morirono. Passannante fu rinchiuso
in una torre sull’isola d’Elba. La sua cella buia era sotto il livello
del mare. Si ammalò, cominciò a cibarsi dei propri
escrementi. Anni dopo fu trasferito in un manicomio criminale dove
morì nel 1910. Al cadavere fu tagliata la testa. Il cranio
e il cervello furono esposti nel museo criminologico di Roma dove
ancora adesso possono essere “ammirati” pagando 2 euro. Quel paese
si chiamava Salvia, ma fu ribattezzato: “Savoia di Lucania”. Si
chiede la sepoltura dei resti di Passannante nella sua terra natia
e la creazione di un calco in gesso e resina del cranio e del cervello
dell'anarchico da lasciare nel museo come testimonianza storica”…
Ma vogliamo ricordare chi fu Umberto I di Savoia,degno esponente
di quella vorace e sanguinaria dinastia straniera che sin dagli
esordi del Regno d’Italia insanguinò, tartassò e tradì
gli italiani?Umberto I di Savoia, figlio del “galantuomo” Vittorio
Emanuele II, nato a Torino nel 1844, caratterizzò il suo
regno per la dura repressione degli scontri sociali in politica
interna e per le sfortunate iniziative militari legate alla politica
estera adottata dai suoi governi. In competizione forsennata con
le altre potenze europee, perseguì una politica di espansione
coloniale con l’occupazione di Eritrea e Somalia. La fallimentare
guerra italo-abissina gli pregiudicò gli interessi sull’Etiopia
e, comunque e sempre gli italiani pagarono con inutile gran tributo
di sangue, usati – specie le popolazioni annesse e non connesse
del Mezzogiorno d’Italia – “come carne da cannone”…basti pensare
alla battaglia di Custoza, al Carso, per citare qualche battaglia
nelle guerre dette di Indipendenza…Insomma, noi italiani dovremmo
vergognarci che i Savoja siano considerati “padri della patria”…Ritornando
alla persocina in questione, Umberto I, che si fece soprannominare
“il re Buono”, assunse un atteggiamento sempre più autoritario
e repressivo, arrivando a decorare - e congratularsi personalmente
con lui (con un telegramma) - il generale-macellaio Fiorenzo Bava
Beccari che a Milano, il 7 maggio del 1898, dal sagrato del Duomo
cannoneggiò la folla di civili – operai,donne e bambini –
accorsa in piazza per protestare contro la nuova tassa sul macinato.
Vi perirono un centinaio di popolani e vi furono centinaia di feriti,
come evidenziato nei verbali della polizia dell’epoca…Perché
questa aggressione forsennata da parte dell’”eroe patrio” Bava Beccari,
premiato pure con un sostanzioso vitalizio?… Perché da più
parti giungevano voci allarmanti circa un sodalizio – rivelatosi,
poi, un’autentica bufala – tra l’anarchico Gaetano Bresci e la nostra
ultima ed eroica regina delle Due Sicilie, Maria Sofia Wittelsbach
che, lasciando Gaeta dopo aver personalmente combattuto sugli spalti
della fortezza contro i piemontardi invasori, giurò solennemente
che gliel’avrebbe fatta pagare all’invasore. Anche se sconfitta
ed esiliata, proprio per il suo coraggio e l’attaccamento dimostrato
al suo popolo “napoletano” Maria Sofia fu internazionalmente riconosciuta
eroina nazionale e godeva ancora, fino alla sua morte avvenuta nel
1927, di gran prestigio, di fama ed ammirazione in tutta Europa.
Persino D’Annunzio le dedicò pagine eroiche e toccanti degne
d'una Musa. Bava Beccari era dunque molto preoccupato, secondo le
false informazioni ricevute, di veder comparire in piazza a Milano,
da un momento all’altro, la regina Maria Sofia e Gaetano Bresci,
a bordo di una invincibile macchina armata – una sorta di carrarmato
– potentissimo mezzo marziale ad uso esclusivo della agguerrita
sovrana…quindi, pensò di far prima e meglio, scannando a
cannonate la folla dei manifestanti… Che strano concetto di “onore”…
per un generale!!!… A Milano, specialmente gli anarchici (che non
sono certo quelli descritti dai mass media, che vanno a scoppiare
tricche tracche e castagnole sotto i portoni degli uffici pubblici)
persone colte, solidali e con un alto senso della difesa dei diritti
umani, ricordano spesso questo vergognoso episodio ed ancora lo
condannano. Qualche anno fa, fui loro ospite con altri relatori
per una conferenza sulla prospettiva del rientro dei Savoja in Italia
– vollero sui manifesti il titolo della conferenza in napoletano:
Savoja, n’autra vota - e devo riconoscere di non aver mai trovato
un uditorio così attento, partecipe e assolutamente sereno.
Di getto, un anziano del circolo, Edgardo Perindani milanese d.o.c.,
poeta dialettale, mi regalò due sue composizioni del 1998
sull’argomento; ne cito una: “Che el re el vegna pur/Ghe farem pasa’
el futur!/I mort i ha fa’ fa’ lu!/In tutt’Italia e a Milan/L’era
el magg del 98/Han masaa, figlin, piscinin/Giovinet donn e vegget/Sti
carogna maledet!/Inziga del Bava general/I so’ militar/Han spara
cont i fusil e i canon/Han masa’ tut’inocent, affama,/disarma’,
strasa’, povera gent/Cent’an in pasa, ma num/Em no dimentica/Per
poder in futur cambia/Viva Bresci giustizier!” ( da “Viva il popol
lavorator Viva il Bresci giustizier”). Ed a proposito di Bresci,
nato vicino Prato l’11 novembre 1869, rese giustizia anche al nostro
povero Passannante, uccidendo nella sera del 29 luglio 1900 il re
d’Italia Umberto I di Savoia, a Monza, per vendicare così
la strage del ’98 a Milano. Era rientrato da Patterson in America,
dove risiedeva, proprio per compiere la sua vendetta. Fu processato
per regicidio e condannato ai lavori forzati. Isolato in una cella
speciale di tre metri per tre, priva di arredi e di suppellettili
(come Passannante), nel penitenziario di Santo Stefano sull’isola
di Ventotene , “dicono” esser morto suicida (ma nessuno vi ha mai
creduto) il 22 maggio del 1901. Analoghe perplessità anche
intorno al luogo della sua sepoltura: secondo alcuni,fu seppellito
assieme ai suoi effetti personali nel cimitero di S.Stefano; certuni
affermano, invece, il suo corpo essere stato gettato in mare. La
sola memoria tangibile che rimase di lui fu il suo cappello da ergastolano
(andato distrutto durante una rivolta di carcerati nel dopoguerra).
Dinanzi all'evidenza di una classe politica italiana che non è
stata in grado di usare il "nuovo strumento" della democrazia...
con particolare riguardo alla classe dirigente partorita dal Mezzogiorno,
che si è servita della sua patria senza servirla, mi sia
consentito levare alto un Viva Bresci! senza tema d'essere considerata
"rea confessa", per una semplice constatazione o libertà
di pensiero. Del resto, Passannante e Bresci sono perfettamente
assimilabili a Masaniello, a Michele Pezza, a Ninco Nanco... e la
lista è lunga... solo che nel post-moderno non ne sono nati
più!
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N°128 del 23-01-2007 - 19:51
Tags: Storia-Miti-Eroi
Virgilio mago di Partenope
di Clara Negri
Quel che resta
dei ruderi romani, di fronte all’isolotto della Gaiola a Posillipo
tuttora immersa nel verde della collina, ancora oggi viene chiamato
Casa del Mago. Lì Virgilio avrebbe avuta la sua villa e lì
avrebbe insegnato le arti magiche ai suoi discepoli, che gli furono
eternamente grati. Che Virgilio fosse un Iniziato lo dimostrano
le molte leggende che lo vedono protagonista di riti propiziatori
e magici e dal fatto che in molti suoi scritti fece riferimento
a luoghi e culti magici della zona partenopea, ma lo dimostra anche
lo specifico tessuto magico-religioso dei partenopei che palesa
in modo chiarissimo la sua perfetta conoscenza delle scuole esoteriche
sviluppatesi in questa zona. Virgilio soggiornò a lungo nella
nostra terra e, prima di morire, nel 19 a.C., espresse il desiderio
di esservi sepolto. Al Parco Virgiliano vi è un sepolcro
di età romana, oggi vuoto, cui una tradizione scolare, in
verità molto discussa, vuole che sia stato sepolto il sommo
poeta. In realtà pare che le ossa e le sue ceneri furono
davvero tumulate in un sepolcro, però nell’antica Via Puteolana,
non troppo lontano dalla sua villa, tuttavia i continui lavori di
ampliamento hanno talmente trasformato la zona da rendere oramai
impossibile il ritrovamento e il riconoscimento dei suoi resti.
Vi è poi un’altra leggenda, di cui parlano antiche cronache
partenopee, che attribuisce a uno straniero appartenente all’epoca
di Ruggiero il Normanno, nella fattispecie a un misterioso inglese
esperto di alchimia e di magia, di aver ottenuto il permesso di
accedere al sepolcro del poeta e di aver asportato le sue ossa con
tutte le reliquie che potevano trovarsi in esso. Ottenuto dalle
Autorità questo permesso, e sfruttando anche i suoi misteriosi
poteri, avrebbe localizzato il luogo dove era sepolto Virgilio.
Ma i napoletani, temendo che costui potesse effettuare esperimenti
di magia sui resti di Virgilio, e che tale sacrilegio potesse scatenare
inimmaginabili calamità sulla loro terra, gli consegnarono
i libri che si trovavano nel sepolcro, trasportandone invece le
ossa a Castel dell’Ovo, dove sarebbero state conservate in un sacco
di cuoio e mostrate, attraverso una grata, a chiunque desiderasse
vederle. Virgilio era indubbiamente un “iniziato”. Lo avvalorano
le numerosissime leggende che lo vedono protagonista di riti magici
e propiziatori a favore della città di Napoli e la fama di
grande mago tributatagli dal popolino. Inoltre in numerosi suoi
scritti fece riferimento a luoghi e culti magici della zona partenopea,
dimostrando di essere perfettamente a conoscenza delle scuole esoteriche
a quel tempo esistenti nonché l’immancabile fusione tra Alta
tradizione e tradizione popolare, confermando, ove mai ce ne fosse
bisogno, che “il sapere delle plebi è, per lo più,
sempre disceso da classi superiori, e spesso singolarmente frainteso”
Anche l’origine dei suoi poteri è legata a Neapolis: secondo
una vecchia leggenda, un giorno, zappando nella sua vigna a Posillipo,
ritrovò una bottiglia nella quale era rinchiuso uno spirito.
Costui, in cambio della libertà, gli offrì di insegnargli
tutta la magia e di donargli il famoso Libro di Salomone. Un’offerta
così allettante non
poteva essere rifiutata e così
il poeta apprese tutti i segreti dell’arte magica. Sarà vero?
Ma saranno poi tutte false leggende sulla sua persona? Ad esempio,
a Piedigrotta, proprio accanto al Parco che ospiterebbe anch’esso
il suo sepolcro, c’è la Grotta Vecchia, oggi inagibile, che
collegava Napoli con i Campi Flegrei. Scavata secondo la leggenda
in una sola notte proprio dal poeta, per soddisfare l’esigenza dei
cittadini che volevano recarsi a Pozzuoli ed erano costretti a superare
“un monte durissimo”, essa fu costruita con un orientamento simbolico:
l’ingresso era volto ad Oriente, dove nasce il sole, inteso come
divinità maschile, e l’uscita ad Occidente, dove l’astro
tramonta lasciando il posto alla notte, e alla luce del nostro satellite,
divinità femminile lunare. La grotta assunse quindi connotazioni
magiche e sacre, essendo legata ai due archetipi maggiori, il sole
e la luna e, per la sua “santità”, le cronache riportano
che in essa non fu mai compiuta azione illecita o disonesta. Inoltre,
miracolo dei miracoli, per due volte all’anno, alla fine di febbraio
e alla fine di ottobre, il sole tramontava proprio alla sua uscita,
illuminandola tutta e facendo arrivare i suoi raggi dorati sino
alle case della Riviera. Virgilio divenne così architetto
del sacro e delle conoscenze occulte che indicavano, nel sole che
tramonta all’altra estremità della grotta, anche il misterioso
Sole nero che, nel suo percorso notturno, va a illuminare il mondo
sconosciuto e proibito degli Inferi. Tale mondo è rappresentato
anche da tutta la zona flegrea, in particolare dal lago d’Averno,
il regno dei morti. L’attraversamento della grotta divenne così
una sorta di rituale iniziatico per arrivare alle Terre dei Laghi,
anticamente considerate gli ingressi dell’Ade, e prendere contatto
con l’aldilà. Così, nella città che ha sempre
praticato il culto della vergine sirena Partenope e del solare dio
Apollo, Virgilio autorizzava ed esaltava questo culto, tanto antico
che, nel secolo XVI, fu trovata a metà grotta una lapide
dedicata al dio Mitra, benché si sia sempre sussurrato che
in essa si praticasse anche il culto di Priapo, il dio dagli enormi
genitali. Quest’altro mito mostra gli stretti legami esistenti tra
il simbolo solare e l’emblema della fecondità maschile per
cui la nostra Grotta, dopo la nascita di Cristo e la corrente sessuofobica
instauratasi nell’era dei Pesci, fu sottoposta a numerosi tentativi
di cristianizzazione. Si narra però che solo nel tardo medio
evo la Madonna sarebbe apparsa a tre religiosi chiedendo loro di
erigere una chiesa dedicata al Suo nome. Il Santuario di Piedigrotta
sorse quindi per far dimenticare le “adunanze rituali con celebrazioni
di osceni riti di magia” che pare si tenessero sino al XII secolo.
Nondimeno ancora oggi, nel mese di settembre, il popolo usa festeggiare
la Madonna di Piedigrotta con canti, balli e piccole trasgressioni
proprio per favorire l’incontro fra i due sessi e (ove mai ce ne
fosse bisogno) la fertilità della specie
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N°124 del 19-01-2007 - 18:41
Tags: Storia-Miti-Eroi
I v.i.p. della zona partenopea
di Clara Negri
Molti
personaggi illustri del passato remoto e recente hanno soggiornato
per breve o lungo tempo nella terra di Partenope, polo d’attrazione
di dèi e di eroi, di maghi e di sibille, di grandi saggi o di
martiri. Potremmo cominciare dal figlio di Zeus e Alcmena, donna
mortale fedele sposa di Anfitrione, con la quale Zeus giacque
con l’inganno, facendosi passare per il legittimo sposo, in una
notte che egli fece durare il tempo di tre. Da questo amplesso
particolare, che già prelude alle “performances” del figlio concepito
in quelle lunghissime ore, nacque l’invincibile Eracle, il nostro
Ercole, anch’egli dio solare come il padre, antico iniziato obbligato
dagli dèi a purificarsi attraverso la grande ruota della vita,
lo zodiaco, superando una dopo l’altra le dodici mitiche fatiche.
In una di queste fatiche, e precisamente dopo il rapimento dei
buoi di Gerione, un mostro con tre teste, tre corpi e sei mani,
abitante una lontana zona ai confini dell’attuale Spagna, egli
attraversò le Alpi e portò il suo armento in Italia, arrivando
sino in Campania. Qui fondò Pompei, così chiamata perché lo fece
con solennissima pompa, e subito dopo Ercolano, cittadina che
ancora porta il suo nome. Ulisse, invece, nel suo peregrinare
per far ritorno a Itaca, fece costruire un santuario in onore
di Atena al Capo di Sorrento. Cicerone acquistò due ville, una
a Pozzuoli e l’altra a Pompei. Lucullo preferì avere la sua villa
nei pressi del Chiatamone, abbandonasi poi a una vita
dissoluta simile a quella degli abitanti di Baia. Ovidio asserì
che “in otia natam Parthenope” e Virgilio amò proprio il
suo ozio soggiornandovi, scrivendo e decidendo di esservi seppellito
per sempre. La tomba del grande poeta è a Mergellina e la terra
partenopea tutta ispirò molta della sua arte. S. Paolo soggiornò
a Pozzuoli circa sette giorni prima di arrivare a Roma. Plinio
il Vecchio vi morì per osservare la grande eruzione del Vesuvio
del 79 d.C. Tiberio si ritirò nella sua amata Capri e lì finì
i suoi giorni. Il nostro suolo ha ospitato inoltre la scuola pitagorica,
le colonie ebraiche e cabaliste del 1° secolo d.C., lo stesso
S. Gennaro, e poi il gruppo gnostico che dopo la morte di Cristo
si spostò a Ercolano e, più vicino a noi, Giotto, Simone Martini,
Boccaccio, Petrarca, G.B. Vico, Metastasio, Goethe, Lamartine,
Leopardi, Sthendal, Pergolesi, Filangieri e tanti altri. La caratteristica
di Napoli resta però la sua fedeltà a se stessa: culla per millenni
di culture e religioni le più diverse,
le ha tollerate, accettate, seguite, arricchendosi con esse senza
mai perdere il proprio volto specifico anzi conservando immutate
nel tempo le sue specifiche connotazioni. Come una Grande Madre
che accoglie nel grembo anche i figli non suoi (non per niente
abbiamo sempre definito Napoli città femmina). Essa ha accolto
e generato culti, credenze, filosofie e religioni, alchimisti
e maghi, saggi e poeti che nutrendosi del suo sapere, ne sono
diventati parte integrante o anche figli riconoscenti, lasciando
ai posteri storie, leggende e testimonianze del loro ottimo rapporto
con la città. Citarli tutti non è possibile, visto che tra figli
naturali e figli adottivi l’elenco non finirebbe mai, ma un cenno
particolare meritano due personaggi certamente “speciali”: Virgilio
mago e Raimondo di Sangro, Principe di S. Severo, entrambi famosi
per le diverse qualità del loro genio che rafforza la verità d’un
antico adagio napoletano: “sotto questo cielo non nascono, né
risiedono, gli sciocchi”.
Inviato
da: vocedimegaride - Commenti: 1
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Inviato
da Anonimo
il 23/01/07 @ 10:07
Sono pensieri semiseri. Ci si aspetta
sempre dai figli che diventino come degli eroici “Enea” portatori
dei propri “Anchise” sulle spalle là dove la sorte li destina.
Questo non sempre. Si tratta comunque dell’eredità dei “padri”.
E Virgilio, nel quale vi si riconosce un merito speciale, giusto
come lei dice, essendo sepolto a Napoli su sua espresso volontà,
è come se avesse lasciato ogni sua cosa preziosa nelle mani
dei napoletani. Egli confidava che essi si prendessero cura
dei suoi “beni” ma anche “debiti”. L’epitafio tombale ricorda
indelebilmente ai napoletani quali fossero le cose cui egli
teneva tanto: «Mantua me genuit, calabri rapuere, tenet nunc
Parthenope». Di «Mantua» ce ne parla il suo discepolo Dante
Alighieri con la sua Divina Commedia: «li uomini poi ‘ntorno
era sparsi / s’accolsero a quel loco, ch’era forte / per lo
pantan ch’avea da tutte le parti.» (Inf XX, 88-91). Dell’altro
figlio di Napoli, che lei cita, Raimondo Sangro, quale “eredità”
esaminare? Da un lato la sua brutta fama di Massone “transfugo”
(ma lo sono tanti altri Massoni), e dall’altro lato di essere
nato nel tempo sbagliato: era troppo in anticipo. Ecco forse
la fonte della verità da lei detta a conclusione: «sotto questo
cielo non nascono, né risiedono gli sciocchi». Nascere in anticipo
nel tempo ha questo di meraviglioso, ma a che prezzo? Forse
i rovesci di Raimondo Sangro con la sua mortificante necessità
di “transfugare”. Senza contare la «Mantua» dantesca di Virgilio
da riabilitare. Ma ragionando così occorre anche mettere nel
conto dei napoletani altre supposte “eredità” lasciate da tutti
gli altri V.I.P illustri, da lei menzionati, che hanno soggiornato
a Napoli. Ripeto sono pensieri semiseri.
Cordialità Gaetano Barbella
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N°119 del 16-01-2007 - 19:21
Tags: Storia-Miti-Eroi
Strane
vicende...
di Pompeo De Chiara
Nei giorni passati
delle festività natalizie, di intensa religiosità,
stranamente sono riemerse iniziative tese alla riaffermazione dei
principi di una Laicità che ricorda fortemente quella della
Grande Rivoluzione Francese che destituì temporaneamente
le Monarchie Cattoliche Europee per partorire l’Impero laico Napoleonico
(Il 2 dicembre del 1804, a Notre Dame, fu celebrata la cerimonia
di incoronazione di Napoleone dopo che le insegne imperiali furono
benedette da Papa Pio VII e il 26 maggio 1805, nel Duomo di Milano,
fu incoronato Re d'Italia con la Corona Ferrea).Strane vicende...
Proprio con questo spirito a Napoli in Largo Baracche tra i vicoli
di Toledo, venerdì 22 dicembre 2006, l'artista Ernesto Tatafiore
ha presentato I Rivoluzionari ardenti della Napoli del 1799 inneggiando
ai “Martiri della Rivoluzione Partenopea” figliastra di quella più
famosa Francese, colorando di bianco le sagome dei Cattivi (Ferdinando
IV e Nelson) e dei colori della Grande Libertà le vittime.
Strane vicende…. Ricordate?... come quella della deificazione della
Ragione tributandole riti, preghiere e, addirittura, processioni
degne della “peggiore” tradizione della Chiesa Cattolica nemica
da abbattere inesorabilmente. Secondo la celebre espressione di
François—Marie Arouet, detto Voltaire, l'"infame"
che la rivoluzione illuminista deve "schiacciare" non
è solo la Chiesa cattolica ma è la stessa religione
e infine lo stesso Dio. Prima di morire, il parigino Sanson, pronipote
e perpetuatore dell’antico mestiere di boia del suo avo fiorentino,
scriverà nelle memorie che le vittime della ghigliottina
portatrice dei Valori della Libertà, Fratellanza ed Uguaglianza,
in Francia furono verosimilmente circa 14.000 mentre tutta la rivoluzione
provocò circa due milioni e mezzo di morti - Pierre Chaunu,
Le grand déclassement, edizioni Robert Laffont, Parigi -
Anche la figliastra della Grande Rivoluzione, la posticcia Repubblica
Partenopea non fu da meno: ad Andria, durante i sei mesi circa di
follia utopica, dopo la distruzione delle città meridionali,
migliaia di abitanti vennero passati a fil di spada: «Dopo
due ore di fuoco dentro la città - riferisce lo stesso Carafa
- ne fummo gli assoluti padroni”... e la Pimentel sul Monitore giù
a biasimare un Popolo che non aveva compreso gli alti valori della
Liberté, Egalité e Fraternité! Nel mentre Ferdinando
IV venne consacrato alla Storia come il tiranno sterminatore di
tutta l’intellighenzia napoletana, su 8.000 persone incriminate
ne furono condannate 1004 ma ne furono assolte e restituite alle
famiglie 6.996 pari all'87,45 % dei giudicati; percentuale rispettabile
quella degli assolti, specie se si tiene presente il clima di forte
tensione emotiva nel quale si svolgevano i giudizi. Dei 1004 riconosciuti
colpevoli, la pena capitale fu richiesta per 105 persone ma la sentenza
fu eseguita su 99 di essi perché 6 degli imputati godettero
della Reale Grazia - 30 Maggio 1800 Indulto generale per tutti i
delitti di Lesa Maestà. • Marulli Gennaro - Ragguagli storici
- Sul Regno delle Due Sicile dall’epoca della francese rivolta fino
al 1815 - scritti dal conte Gennaro Marulli - Ed. Luigi Jaccarino
- Napoli - 1845 - Strane vicende che riemergono in questi giorni
come le notizie di un documentario-film che si dovrebbe proiettare
nelle scuole sul “1848, barricate a Napoli” realizzato da Mekanè
produzioni cinetelevisive per la regia di Attilio Rossi e la sceneggiatura
di Clodomiro Tarsia, che si preannuncia (ancora?) contro la tirannia
ed il dispotismo dei Borbone, di quel Ferdinando II° denominato
Re Bomba per aver fatto cannoneggiare Messina, spergiuro addirittura
per aver ritirato la Costituzione concessa ai sudditi Come testimonia
lo storico ottocentesco Paolo Mencacci, nelle Storia della Rivoluzione
Italiana - dopo la rivoluzione del 1848 non sono state eseguite
nel Regno delle Due Sicilie esecuzioni capitali (eccetto l'unico
caso di Agesilao Milano, un mazziniano che tradendo il suo Sovrano
tentò di uccidere Ferdinando II nel 1856; il Re rimase miracolosamente
solo ferito). Delle 42 comminate dai tribunali, Ferdinando II ne
commuta 19 in ergastolo, 11 in 30 anni ai ferri, 12 in pene minori.
Negli stessi anni il Re grazia 2713 condannati per reati politici,
e 7181 per reati comuni, mentre dal ‘48 la statistica criminale
nel Napoletano è in costante diminuzione. Strane vicende….di
un’Umanità lanciata verso la folle corsa del potere, fatalmente
distratta dall’onnipotenza del proprio braccio tecnologico che,
nato per aiutarla, superandola nella velocità, sarà
anche il proprio braccio della morte consacrando ciò che
Galimberti chiama apertamente la futura supremazia dell’Era Tecnologia
sulla dimensione Umana. La laicizzazione dello Stato sorriderà
beffarda e compiaciuta….il disegno dei suoi avi giacobini di creare
numeri e codici cancellando nomi e cognomi, si sarà finalmente
avverato! La religione sarà vago ricordo di un oppio dei
Popoli che seppe dare conforto agli uomini imperfetti e deboli di
fronte alla Morte. Quando si raggiungerà l’immortalità,
essa sarà semplicemente evocata come nelle attuali fiabe….non
importa che chi racconterà ed ascolterà ciò
mostrerà sul volto i segni evidenti di un’impassibile nevrotica
indifferenza che i propri occhi, attraverso un vuoto sguardo fisso
all’orizzonte, tradiranno, dissimulando un corpo perfetto ma senza
più amore. Strane vicende…
Inviato da:
vocedimegaride - Commenti: 2
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Inviato
da Anonimo
il 16/01/07 @ 19:51
Una disamina storica, quella di Pompeo
De Chiara, che può tranquillamente - con il suffragio dei dati
storici segnalati - essere indicativa della Civiltà napoletana
e che persino Pannella potrebbe utilizzare come fonte archivistica
nelle sue richieste di moratoria contro la pena capitale. Per
quanto, poi, compete il trionfo della Ragione, ci si accorge
che dopo il primo boom illuminista...ha miserevolmente lasciato
il posto alla FOLLIA, come le cronache del '900 fedelmente riportano!
marina
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Inviato
da Anonimo
il 17/01/07 @ 09:36
Molto bello come articolo: lo condivido
in pieno.
Saluti. antimo ceparano
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N°112 del 08-01-2007 - 11:48
Tags: Storia-Miti-Eroi
Il
Sebeto
di Clara Negri
Fra
i tanti misteri e simboli della zona partenopea non si può
non parlare del misterioso Sebeto, fiume dalle acque piene di
poteri magici, che una volta scorreva fino a Napoli e che ora
è letteralmente scomparso, dissolvendosi nella leggenda.
Il suo strano nome ci obbliga a risalire al lontano passato e
al popolo fenicio che, nel suo peregrinare per terre lontane,
aveva la consuetudine di dare ai nuovi lidi nomi che ricordassero
la madrepatria. La parola Sebeto deriverebbe quindi dal palestinese
Sabato col significato di “la fonte degli orti" certamente
riferiti alla lussureggiante campagna della valle vesuviana. Questa
etimologia viene suffragata da un altro sabato, ossia dal giorno
della settimana, che risale addirittura al tempo dei babilonesi
i quali, credendo che la dea della Luna Ishtar avesse le mestruazioni
durante il plenilunio, e quindi fosse molto nervosa, chiamavano
questo giorno sabattu, cioè “brutto giorno”, destinandolo
al riposo. Anche l’ebraico ha la parola shabbâth col significato
di riposo; lo stesso ciclo lunare era chiamato Sabattu e le acque
sono sempre simbolicamente appartenute all’astro d’argento. Qualcuno
ha invece ritenuto che Sebeto provenisse dal greco Sebo, che significa
“andare con impeto”, ma questa etimologia è stata contestata
da De la Ville sur-Yllon il quale ricorda che sebo significa “onorare
con culto”. IL Mancini però giustamente osserva che “se
si dimostrasse accettabile la coniugazione sebo-sebeto, dovremmo
individuare una prepotente volontà originaria (il corsivo
è mio) che finalizzò il nome al culto dovuto al
Sebeto quale divinità riconosciuta dal popolo”. Sia per
i dopo la battaglia navale di Cuma, erano divise
dalla foce del Sebeto. Alcune monete d’argento che risalgono al
500 a.C. mostrano il volto d’un giovane con un corno sulla fronte
e attorno alla moneta la scritta Sepeitos mentre sul retro vi
è una donna alata. Il giovane sarebbe appunto il dio del
fiume e risponderebbe all’uso dei greci di divinizzare i suoi
fiumi sia dedicando loro un tempio sia raffigurandone la divinità
sulle monete. Fenici che per i Greci era consuetudine fondare
le loro città nei pressi di qualche fiume e Napoli ha un’indubbia
origine greca per cui tutte le supposizioni possono essere giuste.
Di certo la città di Palepoli o Partenope e quella di Neapolis,
fondataIL Sebeto era dunque il dio fluviale di cui parla anche
Virgilio nell’Eneide, libro VII: “ …Ebalo, dalla ninfa del Sebéto,
come narra la fama – ti generò Tolone, già avanti
negli anni, quando nell’isola di Capri regnava sui Teleboi”. La
ninfa del Sebeto, o Sebetide, sarebbe quindi la figlia di Sebeto
e della sirena Partenope che, più tardi, generò
Ebalo, futuro re dell’isola di Capri. Ma da dove scaturiva questo
mitico fiume e dove scorreva prima di sfociare vicino a Megaride?
Molto probabilmente proprio dalla zona vesuviana e, nel suo percorso
irregolare e rapido, convogliava altri ruscelli che provenivano
dalla zona di Poggioreale e dei Colli Aminei, confluendo per l’attuale
via Medina prima di sfociare verso Santa Lucia dopo aver lambito
la collina di Pizzofalcone. Questa teoria spiegherebbe anche la
sua attuale sparizione in quanto i continui fenomeni vulcanici
che hanno sempre interessato la zona partenopea, con i susseguenti
fenomeni geologici, hanno esaurito o deviato molte antiche sorgenti.
Ce lo confermerebbe anche Giovanni Boccaccio, che soggiornò
a Napoli nel 1300, e che così scriveva: “ Sebeto…come taluni
affermano, è il fiume presso Napoli in Campania, che io
non ricordo di aver visto, tranne che non si tratti invece di
quel rivolo che scorre nelle paludi tra le falde del monte Vesuvio
e senza nome s’immerge nel mare”. Questo fiume, che certamente
ha avuto il merito di costituire al suo tempo un’utilissima fonte
di irrigazione, viene anche ricordato per la straordinaria limpidezza
delle sue acque che, in alcuni punti, venivano anche incanalate
artificialmente per essere utilizzate nella zona ovest della città.
In un’antica carta del territorio di Napoli, stampata nel 1566,
appare il Sebeto che passa sotto il ponte della Maddalena e poi
si allarga in tanti rivoli perdendosi nel mare. Di certo quel
fiume era considerato dagli antichi come un dio benefico che contribuiva
alla fertilità del suolo e al benessere delle sue genti.
Metastasio lo ha immortalato con i versi:” placido Sebeto/che
taciturno e cheto/ quanto ricco d’onor, povero d’onde…”
(immagini di Mauro Caiano/VIP-Napoli)
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N°109 del 05-01-2007 - 19:59
Tags: Storia-Miti-Eroi
Alchimie
partenopee
di Clara Negri
Napoli,
e il suo incantevole golfo che idealmente inizia dalla Punta
della Campanella per finire a Capo Misero, da quasi tremila
anni propone all’uomo, con le sue bellezze naturali, la perfetta
fusione dei quattro magici elementi: Acqua, Aria, Terra e Fuoco,
amalgama ideale per le innumerevoli alchimie mentali dei grandi
uomini passati e recenti che si sono trovati a soggiornare nei
suoi luoghi. Città magica per antonomasia ma soprattutto città
che ha sempre esaltato la simbologia del femminile, essa nasce
circa nove secoli prima di Cristo e, nel corso del tempo ospita
razze e popoli i più svariati, assorbendo senza alcuna difficoltà
culti e tradizioni diverse, mescolandole armoniosamente con
quelle locali. Collegata in modo inscindibile con i più elevati
simboli dell’uomo, simile a una madre generosa, essa fa sì che
ognuno di tali simboli si fonda armoniosamente col suo contrario,
individuabile dal sempre demonizzato “femminile” abilmente proposto
dal culto delle sirene che, senz’alcun dubbio, si ricollega
a un antico matriarcato della cui memoria si è persa traccia.
Questa città, infatti,
ha sempre promulgato l’unità del Tutto – antico principio
ermetico oggi riconosciuto esattissimo proprio dalla scienza
più avanzata – ed è dotata di quella prerogativa
tutta femminile di far accettare quel che essa vuole grazie
all’abilità di saper fingere di essere d’accordo con
gli altri…Così, proprio con l’ausilio del suo mare, del
fuoco dei vulcani, della bellezza del suo cielo e dell’ubertosità
delle sue terre, Napoli trasmette le più alte e complesse
cosmogonie dietro l’apparenza del fatterello e del racconto
folkloristico. In tal modo sirene alate o sotto forma di pesci
col corpo di donna, acque, lave, mostri marini, ciclopi iracondi
o sagge sibille sono la semplice veste con cui essa ricopre
le verità più profonde, ben comprensibili però
da coloro che hanno già iniziato a fare i primi passi…
Non è follia sostenere che tutta la storia dell’uomo,
e del golfo di Napoli in oggetto, non sia solo quella riportata
dai testi ufficiali o dalle cronache correnti bensì una
storia nascosta e indissolubilmente
legata ai più segreti contatti col mondo invisibile,
occulto, che da sempre fa parte della natura umana. Questo mondo,
legato all’emisfero destro del cervello, ossia al lato intuitivo,
medianico, lunare, femminile, contrapposto al lato sinistro,
solare, maschile, pragmatico e razionale, ha trasmesso per secoli
e millenni le sue conoscenze e i suoi segreti a una catena di
iniziati, sconosciuti e no, mediante un vero e proprio argot
affidato appunto ai simboli e al mito. Ma cos’è il simbolo?
Esso è una figura, un disegno, una forma universalmente
adottata per rappresentare un’idea e presuppone “un’omogeneità
tra significante e significato”. La sua funzione è quella
di dilatare sempre più il senso espresso su svariati
piani , divenendo un vero e proprio amplificatore cosmico. Ogni
simbolo contiene in sé la legge della coesistenza degli
opposti esprimendo, per chi lo sa capire, le polarità
di ogni cosa. L’uomo è un creatore di simboli, ed anche
il naturale fruitore poiché potremmo dire che essi sussistono
indipendentemente da lui. E’
la loro decifrazione che ci permette di risalire alle origini
e alle modalità della creazione e, contemporaneamente,
d’intravedere il tempo della sua fine. La comprensione dei simboli,
però, non dipende dalla cultura dell’individuo quanto
piuttosto dalla capacità d’illuminazione interiore. Il
simbolo vive, ed ha un significato che non può essere
identico per tutti. E’ un elemento dinamico del sapere e si
propone alle menti analogiche con “la simultaneità dei
significati che esso rivela”. Con questa diversa chiave di lettura
la tradizione storico-culturale di Napoli e dei suoi dintorni
appare sotto un’altra luce, più provocatoria e stimolante,
che investe il mito, la religione, la magia di questa terra
bruciata dal sole. E gli uomini o gli dèi che costellano
la sua storia sono protagonisti o vittime involontarie d’un
copione a loro riservato, talvolta apparentemente folle o senza
significato ma sempre inserito in un tessuto più vasto,
in una trama il cui disegno appare solo a tessitura ultimata.
Questa via iniziatica rivede fatti, cronache, miti e li ripropone
sotto una nuova veste e una dimensione diversa e meno comune.
Immagini
di Mauro Caiano/VIP-Napoli
il sito della nostra Clara Negri è www.astrarmonia.it
Inviato
da: vocedimegaride - Commenti: 2
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Inviato
da Anonimo
il 07/01/07 @ 09:01
Sentir parlare di Punta della Campanella,
dei quattro elementi magici e tanti altri elementi irreali
ma idonei per un impalcato mentale fuori dai razionali ragionamenti,
mi ha portato a certi miei divagare consueti, che mi distolgono
benevolmente dai fatti “domestici” giunti all’intolleranza.
Sentite questa mia ipotesi sulla Divina Commedia che mi
è sembrata amabile con la visione delle cose su «l’ombra
d’Argo» (Par XXXIII,96) se poste in stretta relazione con
Punta Campanella, appunto. Contrariamente a quanto si è
sempre supposto su «l’ombra d’Argo» («Un punto solo m’è
maggior letargo/che venticinque secoli a la ‘mpresa,/che
fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo»: Par XXXIII,94-96)) in
modo vago ed incerto, la mia interpretazione si basa su
semplici fatti. Già si appura qualcosa di sospetto relativamente
alla locuzione «letargo» che valicherebbe l’allusione «a
la ’mpresa» «d’Argo» poiché «Sfinge» («E forse la mia narrazion
buia,/qual temi e Sfinge, men ti persuade,/perch’ a lor
modo lo ‘ntelletto attuia;»: Pur XXXIII,43-45), al suo concepibile
termine a ritroso nel tempo, è legato alle piramidi di Giza
d’Egitto, ed è il punto uno. Punto due. La concezione in
chiave egizia, come argomentato, si può semplicemente spiegare
in questo modo. Sulla piana del Sele, della Campania, prospiciente
al supposto punto d’approdo degli argonauti, tra il capo
Trezino e il promontorio delle sirene (Punta Campanella
di fronte a Capri), fu eretto un tempio dedicato alla dea
Hera, noto col nome di Argiva. La tradizione attribuisce,
appunto, a Giasone, capo degli argonauti, questa iniziativa.
Più a sud, a circa 9 km., Paestum, fu edificato sull’altura
omonima un altro tempio a Hera, comunemente chiamato «Basilica»,
e a poca distanza, ne fu edificato, in precedenza, un altro
dedicato a Nettuno o Poseidone. Più da vicino, il lirismo
dantesco si può configurare nel considerare i templi di
Nettuno ed Hera come due “vecchi” che ricordano con nostalgia
i loro bei tempi e perciò rivolgono i loro occhi in basso
verso il mare sulla sponda del familiare fiume Sele, dove
in lontananza si ammira la bella Capri. Il loro pensiero
ricorre a quei giorni in cui le lunghe navi dei Greci approdavano
vincendo con la forza dei remi l’impetuosa corrente del
fiume. Vedevano le navi accostare alla sponda, ormeggiare
alle bitte ricavate da tronchi d’alberi secolari: gli uomini
scendere per venire a presentare doni e omaggi alla divinità
adorata nel santuario. Dal punto di vista della «Sfinge»
si possono fare dei conti partendo dall’ombra d’Argo, ossia
dalla presunta data di costruzione del tempio di Nettuno
sito a Paestum che si fa risalire al 450 a.C.. A questa
data assommando 25 secoli (citati da Dante in relazione
all'«ombra d'Argo», cioè 2500 anni, otterremo 2950 cui corrisponde
il possibile periodo delle prime dinastie, o seconde, dei
Re dell’antico Egitto, perché non c’è tanta concordanza
degli archeologi in merito alle datazioni relative. Naturalmente
vale sempre il calcolo fatto dai commentatori danteschi
per risalire alla datazione dell’impresa argonautica presunta
verso il 1223 a.C. Che ve pare?
Gaetano Barbella
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Inviato
da Anonimo
il 07/01/07 @ 18:40
claranegri@alice.it per Gaetano Barbella:
Sono fermamente convinta della simbologia
esoterica napoletana e, soprattutto, di quella femminile,
decisamente esaltata. Ciò non mi proviene soltanto dall'aver
letto molto sulla storia di Napoli, ma soprattutto di archeologia,
quella VERA, che palesemente parla e dimostra l'esistenza
di antichissime società MATRIARCALI che si sono combattute
con quelle patriarcali. Non si tratta, ovviamente, solo
delle Amazzoni o delle Valchirie ma di ben altro!!! E' di
grande interesse la sua nota che dimostra quanto lei sia
preparatissimo in studi danteschi, perché Dante era un grandissimo
esoterista e conosceva le cose molto bene, inlcuse le influenze
astrali sull'uomo...
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Messaggio
N°81 del 14-12-2006 - 13:46
Tags: Storia-Miti-Eroi
La
Serenissima e le Due Sicilie
di Luigi - Gigio Zanon, Venezia
Il
mio libro “Anno 1866: la Libertà perduta! Anno 2006
la Libertà ritrovata!” ha una sua singolare storia,
ed è frutto di anni di ricerche, di studi, di letture,
di consultazioni.
A scuola ci hanno insegnato che il cosiddetto risorgimento
è stato frutto della volontà degli italiani,
prima e di Cavour e Vittorio Emanuele, poi. La retorica risorgimentista,
invece, è un eclatante falso storico perpetrato ad
arte per confondere le idee ai nuovi sudditi di casa Savoia.
L’Italia NON è stata unificata!
L’Italia, bensì, è stata piemontizzata!
|
|
Vale
solo la pena di ricordare che lo Statuto Albertino del 1848
è stato vigente fino al 1946, e che solo la nuova nostra
Costituzione lo ha abrogato. Ma cosa c’entra con il libro?
E’ presto detto. Anch’io, come la maggior parte degli italiani,
ci avevo creduto. Avevo creduto nei mille, in Garibaldi, in
Cavour, ecc. ecc. E anch’io, come quasi tutti, ero convinto
che fosse stata la volontà
|
degli
italiani a unificare l’Italia. Ma,spulciando qua e là
nei testi – diciamo – proibiti, ossia scritti al di fuori
della retorica risorgimentista, mi sono accorto che non tutto
mi quadrava! Così, ho voluto approfondire questa nuova
visione delle cose.
Ho iniziato ad occuparmi di Garibaldi, ed ho scoperto che
il cosiddetto “Eroe dei due mondi” era stato anche un negriero
e che faceva la tratta degli schiavi dalla Cina all’America
del nord per la costruzione della ferrovia
|
|
|
transoceanica che stavano costruendo! Ho scoperto che lo sbarco
dei mille in Sicilia era stato fatto con la complicità
della flotta inglese e con il beneplacito della Francia. Ed
il motivo era semplice: queste due potenze volevano un nuovo
stato-cuscinetto fra i due opposti schieramenti dell’epoca,
ossia l’asse Anglo-franco-piemontese, allargato a tutta la
penisola, in contrapposizione all’asse Austro-prussiano! E
cosa fecero questi “Mille” una volta sbarcati? iniziarono
con il terrorizzare le popolazionipacifiche siciliane
ed imporre la loro feroce nuova dittatura. Popolazioni, badiamo
bene, suddite di un legittimo governo retto
|
dai Borbone! Il
paragone dell’ occupazione del Quwait da parte dell’Irak nel
1992, che tutto il mondo biasimò fino ad addivenire
ad una guerra, regge e specifica l’occupazione dei Mille!
Rapportandolo in tempi attuali, si sarebbe mosso il mondo
intero per ovviare a questa occupazione, ma invece… a quei
tempi si usava così! Potenza delle
politica! E mano a mano che questi mille invadevano i territori
delle Due Sicilie, spalleggiati dall’esercito piemontese presto
intervenuto, commettevano orrendi massacri, commettevano ignobili
stupri, saccheggiavano, distruggevano, bruciavano villaggi
interi il tutto in nome della nuova unità d’Italia!
E quelli che si ribellavano li chiamavano “Briganti”! Quando
l’esercito borbonico fu del tutto sconfitto, gli oltre 40mila
soldati che si erano arresi furono spediti in prigionia nelle
montagne del Piemonte.
|
Uomini
del sud che non erano abituati ai climi freddi del nord! Ebbene:
di loro non si seppe più nulla!
Molti storici, specie meridionali, cercarono di accedere ai
nostri giorni negli archivi segreti dell’esercito, a Forte
Boccea, ma si sono trovati sempre davanti ad un diniego assoluto!
Una interrogazione al Governo da parte del deputato Angelo
Manna (interrogazione n. 2-01134 del 25 settembre del 1990)
su questa faccenda, il 4 marzo del 1991, n. 597, mise in chiaro
e in difficoltà il Governo stesso. E come non bastasse, iniziai
a leggere i libri dei Meridionalisti! Pexo el tacon del buso!Infatti
i Veneti temevano i massacri di Bronte, e le trucidazioni
e i paesi dati
alle fiamme, interi villaggi distrutti e i loro abitanti ammazzati.
Non intendevano fare la stessa loro fine! Non intendevano
fare, cioè, la stessa fine delle migliaia di soldati prigionieri
dell’ ex Regno delle due Sicilie internati nelle
|
|
province settentrionali e di cui erano scomparse le tracce!!!
Scrive,
infatti, il legittimista Giacinto De Sivo (Storia delle Due
Sicilie dal 1847 al 1861, vol.II, pag.354) riferendosi a loro:
“tenevano i Napoletani prigionieri in castelli subalpini,
barbaramente, se fradicia paglia, affamati, con panni da estate
in crudo inverno! Sì tartassandoli per indurli a pigliar livrea.
Sempre rispondevano no: messi in luoghi stretti e umidi, gridavano
viva Francesco! Liogati allora a due a due, e mandati in fortilizi
lontani, come potevano fuggivano, o a casa o a’ Tedeschi”,
cioè nelle province austriache del Veneto e del Trentino.
E ancora:” Memori di ciò che fece Raffaele Cadorna, cinquantuno
anni, volto ascetico sul quale campeggia un naso volitivo,
il quale non può non ripensare a quelle truppe piemontesi
che aveva comandato cinque anni prima in Abruzzo, guidandole
in una lotta terribile contro i briganti che infestavano quelle
pIaghe da poco liberate e unite al resto d'Italia. Che cose
orribili erano successe in quella campagna. Agguati, fucilazioni,
omicidi, stupri, massacri, cadaveri esposti nelle pubbliche
piazze, cittadini passati per capi briganti ammazzati e poi,
ripuliti alla meglio, messi in posa accanto ai soldati piemontesi;
malattie, fatiche spaventose, il tutto in un crescendo di
odio e di terrore, misti a delusione e rabbia per come andavano
le cose, per come i sogni di un’altra Italia morivano nei
boschi e nelle montagne del Mezzogiorno!” (Marco Gioannini
e Giulio Massobrio) Alle morti in combattimento si erano
aggiunte quelle dovute alla malaria e alle febbri, indotte
dalle difficili condizioni ambientali alle quali i soldati
settentrionali non erano abituati. Il maggior generale Franzini,
sul finire del '62, aveva scritto a Napoli un rapporto riservato
con cifre terribili: decine di ammalati per compagnia, alcune
di queste con non più di dieci individui sani, cinque morti
in una settimana nella compagnia di bersaglieri stanziata
a Rocca Minarda, per febbri tifoidee e perniciose causate
dalle faticose perlustrazioni di quei giorni. Cadorna ricorda
purtroppo come spesso le truppe regolari avessero dovuto fare
a gara con i briganti in efferatezza, per esempio a Pontelandolfo
dove i bersaglieri avevano massacrato la popolazione inerme,
vecchi, donne e bambini compresi, tanto da suscitare le ire
di Giuseppe Ferrari, che alla Camera ebbe a esclamare che
non così si era intesa fare l'Italia. E ancora di più mi addentrai
a rileggere la vera Storia del cosiddetto “Rinascimento”,
e ne scoprii delle belle! Specialmente sulla annessione del
Veneto al regno Sardo-Piemontese e della truffa perpetrata
ai danni delle pacifiche popolazioni Venete! E scopersi tutte
le falsità che ci avevano inculcato a scuola sul presunto
rinascimento, sugli eroi impiccati, sui martiri nostri, ecc.
Ma sopratutto su quello che è stato definito l’eroe dei due
mondi! Ma questo è un altro discorso. Finchè giunsi ad avere
fra le mani una copia del diario del Commissario Piemontese
– Genova Thaon di Revel – incaricato alle trattative per la
cessione del Veneto dalla Francia al Piemonte, trovato nella
bancarella di libri vecchi in strada nova. Lo lessi e rilessi,
e mi accinsi a confutare le sue roboanti dichiarazioni con
altri fatti che nel frattempo avevo trovato negli archivi.
Una falsità dietro l’altra! La menzogna portata a metodo!
E nelle scuole ci avrebbero insegnato tutto ciò? Inaudito!
Mi venne anche in mente che Garibaldi si lamentò perché il
Veneto non era insorto per cacciare gli austriaci! Ma come
poteva pretendere una cosa simile? Si era sì nell’800, ma
Vivaddio le notizie circolavano! Direi: forse meglio di adesso!
E i Veneti avevano ben appreso come erano stati trattati i
“Fratelli” meridionali dai liberatori “fratelli” Piemontesi!
Ma anche questa è un’altra storia. Quello che più conta è
che dopo due sonore sconfitte subite dai sardopiemontesi,
a causa di inique alleanze il Veneto venne ceduto dapprima
alla Francia e da questa al regno Sardo, a condizione che
il popolo decidesse il futuro assetto del Veneto. Ma nell’ottobre
del ’66 il Veneto era già stato occupato dalle truppe del
Savoia, ed ancor prima – parliamo agli inizi degli anni ’60
– da emissari piemontesi inviati apposta per sobillare la
popolazione! E Napoleone III si è fatto ben bene abbindolare!
A meno che… A meno che non vi sia stato un accordo segreto
fra lui e suo “fratello” Savoia per il quale, a differenza
di tutte le altre nazioni europee, non avrebbe dovuto fare
domanda alcuna per ottenere la restituzione delle opere depredate
da Napoleone I … E neppure al giorno d’oggi nessun governo
italiano si è sognato di chiedere la restituzione! Chissà
perché!? Non vado oltre per non togliervi la soddisfazione
di poter leggere con calma e tranquillità questo libro che,
ne sono certo, farà scalpore.
Inviato da: vocedimegaride - commenti: 1
Inviato
da Anonimo
il 16/12/06 @ 14:49
Gentile Zanon. È ammirevole di questi
tempi il suo infiammarsi per un'Italia, quella del 1866, di
una «Libertà perduta» e poi da lei oggi «ritrovata», «frutto
di ricerche, di studi, di letture, di consultazioni», come
dice. Ma è altrettanto triste e malinconico «Il silenzio di
Megaride» di Marina Salvadore, che la ospita nel suo giornale
on line e che esibendo mirabilmente il suo lirismo poetico,
porta a consapevolezza. Come se volesse indirettamente ammonire
chi si dispone a far conoscere i particolari di un’antica
mortificazione subita ad onta «del bugiardo e misogino Odisseo»
- secondo la visione di Marina - quasi a rivederlo prepotente
ed arrogante, millenni dopo nel piemontese re Vittorio Emanuele
II e suoi "Giannizzeri". «Non canta più, Megaride. - e così
conclude il post l’inquieta Salvadore - Punisce con la peggiore
delle vendette i suoi figli ingrati e traditori: con il Silenzio
inquietante e terribile; unica potente arma di lotta ad uso
delle generose ma implacabili Sirene!». È il sipario della
tragedia di Megaride che Marina Salvadore, a mo' di sirena
partenopea risorgente, fa calare, ma di conseguenza anche
il bel Regno delle Due Sicilie del libro di Luigi-Gigio Zanon.
È un "canto" che, ironicamente, si contrappone a quel verdiano
«Va' pensiero» risorgimentale! Che incredibili accostamenti
disegnati dal caso! Ma se la Serenissima e le Due Sicilie,
oggi attraverso il suo libro trovano una certa «Liberta»,
se pur discutibile, ad onor della verità c’è un caso italiano
tutt’altro che “rientrato”. Infatti non è così per il popolo
istriano di radice italiana, in parte rimasto in Istria ed
il resto quà e là sparsi in Italia dopo la seconda guerra
mondiale. In vero questo popolo è come se fosse senza patria.
Ecco colgo l'occasione per fare ciò che lei ha fatto per la
Serenissima e per le Due Sicilie: rinvangare memorie istriane
attraverso un mio prozio Umberto Barbella. Era il tempo in
cui l’Italia si preparava per entrare in guerra, la Grande
Guerra. Era il momento felice per l’Italia della scienza con
i successi di Gugliemo Marconi, Nobel per la fisica nel 1909.
Fu anche bello e ricordevole l’esperienza, che Marconi fece
sulle radiocomunicazioni, per Umberto Barbella, quale sottufficiale
imbarcato sulla Regia Nave Napoli (!?) che servì per questa
impresa. Era il 13 marzo 1914. La guerra divampò feroce di
lì a poco e furono tre anni di immani sacrifici. La Grande
Guerra finì e ci fu la presa di possesso della Base del Comando
Navale dell’armata austro-ungarica dislocata ad Abbazia d’Istria.
Il caso volle che fosse ancora il sottufficiale Umberto Barbella,
imbarcato sul R.C.T. Acerbi della Real Marina Italiana, a
sbarcare ad Abbazia per issare il nostro tricolore sul pennone
dell’ex Base Navale degli austro-ungarici. In quei giorni
di giubilo, mai si potevano supporre gli estremi sacrifici
cui furono soggetti i residenti italiani ivi dislocati nel
futuro non tanto lontano che li aspettava dopo la seconda
guerra mondiale. Eppure fu un bel giorno quel 4 novembre 1918.
Oggi che Italia si presenta in virtù di simili rinuncie, viene
da domandarci? Perché è questo che occorre che gli italiani
sappiano.
Ma ancor si dispone l'orrido drago a menar la sua coda e tirar
giù nuove stelle del nostro bel cielo, mare e terra d'italica
gente.
Si chiama Europa Unita,
un’altra Bestia per un'altra ipocrita unità? Vorrei tanto
poter dire, sempre poetando:
Rallentar l’atroce ratto celeste:
lotta infinita d’un lampo,
poi la mortal resa
e il chetar del mare tenebroso.
Gocce di tenue rugiada
nell’aria sparse, posar morbide.
Biancori di vita involar sereni
come augure colombe festose.
Cordiali saluti ed auguri per il libro «La Serenissima e le
Due Sicilie»
Gaetano Barbella
Il geometra pensiero in rete
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Messaggio
N°65 del 06-12-2006 - 19:26
Tags: Storia-Miti-Eroi
La Sibilla Cumana
di Clara Negri
Secondo
alcune testimonianze tramandate dalla letteratura latina, tra cui Ovidio
e Virgilio, un tempo esistevano dieci vergini incartapecorite, le Sibille,
rimaste caste perché fedeli spose del dio Apollo che aveva donato loro
l’arte del profetare. Le più famose erano la Sibilla di Delfo, quella
di Eritrea e, soprattutto, la Sibilla di Cuma o cumana, zona che si
trova a ovest della città di Napoli. Quest’ultima veniva anche chiamata
Amaltea, che è il nome della nutrice di Zeus. La
Sibilla, cui già nell’età greca le si attribuivano duemila
anni, profetava in un antro situato in una grotta del lago d’Averno
e poi sull’acropoli di Cuma, dove dicono avesse predetto la distruzione
di Cartagine, l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., la nascita di Gesù
e perfino la fine del mondo!
Nel suo antro, tuttora visitabile per chi non teme ragni e ragnatele,
c’è ancora una grossa pietra quadrata situata in un punto che
si trova in relazione diretta col magnetismo del sottosuolo. Sopra quella
pietra la Sibilla,
dopo varie abluzioni e masticando foglie di lauro, la pianta sacra al
dio Apollo, iniziava a profetare. 
Per
un particolare gioco di rifrazioni la voce provocava infiniti echi che
si diffondevano in tutte le ramificazioni delle grotte mentre i sacerdoti
trascrivevano i suoi vaticinii su foglie di palma che volavano via alla
minima corrente d’aria. Raccolte le foglie in ordine sparso, il responso
veniva letto con grande elasticità. Famoso è l’aneddoto
legato ai suoi responsi ambigui e quindi di difficile comprensione:
ai soldati che partivano per la guerra e che le chiedevano se sarebbero
tornati, essa rispondeva: “Ibis Redibis Non Morietur In Bello” che,
tradotto letteralmente, significa “Andrai Tornerai Non Morirai In Guerra”.
L’arcano è tutto
in una virgola. Se infatti essa si pone dopo i primi due verbi avremo
“Andrai ritornerai, non morirai in guerra”. Ma se si pone dopo il non,
avremo: “Andra ritornerai non, morirai in guerra” acquistando in nefasto
ma garantendo egualmente l’esattezza del responso! Una
leggenda narra che un giorno la Sibilla, avendo ricevuto la visita di
Tarquinio,gli offrì tutti i testi che contenevano le tecniche
divinatorie di sua conoscenza, ma ad un prezzo molto alto. Tarquinio
rifiutò e allora la Sibilla ne distrusse la terza parte offrendo
al re di Roma quella restante, sempre per lo stesso prezzo. Tarquinio
rifiutò ancora. Nuovamente essa ne distrusse un altro terzo e
la parte restante, conosciuta sotto il nome di Libri Sibillini, gli
fu per la terza volta offerta senza una sola moneta di sconto. Questa
volta il re, suggestionato da tanta insistenza, accettò il pagamento
e conservò i testi nel tempio capitolino dove però, si
dice, essi andarono distrutti nell’83 3 d.C., in seguito a un gravissimo
incendio.
(nelle
foto: Cuma, antro della Sibilla e Tempio di Apollo - di Mauro Caiano)
Inviato
da: vocedimegaride - commenti: 0
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