La cappella è glaciale.
Pavimento di marmo, marmo alle pareti, tombe di marmo, statue di marmo.
Un marmo scuro, che ha preso una tinta malaticcia ed umida pel tempo
che è trascorso, pel sole che manca, per la scialba luce che
piove dalle vetrate. Non ornamenti di oro, non candelabri, non lampade
votive, non fiori: invece fregi, ornamenti, mosaici, iscrizioni, palme,
volute, capitelli in pietra bianca, grigia o nera, non altro che pietra.
Tutto vi è gelido, tranquillo, serenamente sepolcrale. Altrove,
è vita la voce del prete che prega, la tenue fiammella dei cerei,
lo squillo del campanello, lo scricchiolio di una sedia, il fumo sottile
dell'incenso: qui non si prega, non ardono lumi, non sono sedie, non
sono campanelli, non fumano incensi. Non si vive per pregare: si muore
nello sfinimento della preghiera che s'arresta sulle fredde labbra.
Non è una chiesa, è una tomba.
Volete vedere il Cristo morto? - chiede la guida con la sua voce strascicata.
Quella voce umana, volgare mi scuote. Eppure, mi parla ancora di morte.
Vediamo prima la cappella - mormoro, quasi vergognandomi di parlare.
Coloro che vi giacciono, queti ed immobili, le braccia in croce sul
cuore morto, appartengono alla nobilissima fra le famiglie: Grandi di
Spagna di prima classe, due volte conti, cinque o sei volte marchesi.
Sulla porta di entrata è la tomba dell'antichissimo antenato,
che andò alle Crociate; ferito e svenuto in un combattimento,
fu creduto morto e portato a seppellire, ma risvegliatosi d'un tratto,
saltò fuori dalla bara, più animoso e sbaragliò
e sconfisse il gruppo dei nemici. Tombe dappertutto. Pompose iscrizioni
latine, in cui il sentimento ed il carattere s'affogano nella monotona
convenzionalità dell'elogio. Solo le cifre hanno un malinconico
significato: la vita non è lunga, nella nobile casa. Vi muoiono
presto le fanciulle, vi muoiono presto i giovanetti. Ogni tomba, ha
la statua grande di colui che vi è sepolto, o almeno un medaglione
su cui si disegnano e si rilevano certi profili soavi, certe linee serenamente
altiere, certi ondeggiamenti marmorei di chiome disciolte. Nella famiglia
è tradizionale una pura bellezza, più d'espressione, che
di plastica. Ogni tomba ha la sua statua, ogni tomba ha il suo medaglione.
Volete vedere il Cristo morto? - insiste il custode.
Finiamo di vedere la cappella - ripeto io, singolarmente infastidita
e colpita da quella insistenza.
Fra una tomba e l'altra, statue e gruppi allegorici, sempre in quell'eterno
e freddo marmo. Ecco il Pudore col volto coperto da un velo, ecco la
Fortezza, ecco la Temperanza, ecco la Gloria, ecco l'Educazione, ecco
l'Amor filiale, vuote allegorie che non chiudono più alcuna idea.
Ultimo, poeticamente ultimo, è il Disinganno, un uomo che cerca,
con uno sforzo supremo, distrigarsi da una fitta rete che l'avviluppa
tutto. Singolare chiusura della vita, termine singolare di tutte le
sublimità, di tutte le passioni, di tutti gli amori. Il Disinganno
- e più altro.
Perché questa tomba non ha medaglione? - domando al custode.
Egli non m'ha udita, o non m'ha compresa, perché ricomincia a
dire:
Il Cristo morto...
Vediamo l'altar maggiore - ripeto io, ostinandomi.
Sì, l'ultima tomba a dritta non ha medaglione. Manca il ritratto
della nobile principessa che vi è sepolta, che è morta,
anch'essa, così giovane. Il medaglione è liscio, vuoto,
bianco, come se ne avessero raspata, cancellata l'immagine. Ed è
triste come nella sala ducale, a Venezia, il ritratto di Faliero, coperto
da un velo nero.
L'altar maggiore è nudo, severo. Sulla parete, in fondo, in alto
v'è un quadro, una Vergine della Pietà, scolorita, che
sostiene sulle ginocchia il livido corpo di Gesù. La pittura
è guasta, bruna, tetra; un sorcio ha fatto un buco nero nel costato
di Gesù. Più giù, proprio dall'altar maggiore,
un grande gruppo in marmo che rappresenta la Deposizione della croce.
Sempre lo stesso soggetto, sempre la morte.
- Ed ecco - ripete trionfalmente il custode, staccandosi dall'altar
maggiore - il Cristo morto.
Sta ai piedi dell'altar maggiore, a sinistra. Sopra un largo piedestallo,
è disteso un materasso marmoreo; sopra questo letto gelato e
funebre giace il Cristo morto. E grande quanto un uomo, un uomo vigoroso
e forte, nella pienezza dell'età. Giace lungo disteso, abbandonato,
spento: i piedi dritti, rigidi, uniti, le ginocchia sollevate lievemente,
le reni sprofondate, il petto gonfio, il collo stecchito, la testa sollevata
sui cuscini, ma piegata sul lato diritto, le mani prosciolte. I capelli
sono arruffati, quasi madidi del sudore dell'agonia. Gli occhi socchiusi,
alle cui palpebre tremolano ancora le ultime e più dolorose lagrime.
In fondo, sul materasso sono gettati, con una sprezzatura artistica,
gli attributi della Passione, la corona di spine, i chiodi, la spugna
imbevuta di fiele, il martello. Sul piedestallo, sotto i cuscini, questa
iscrizione: .Joseph Samrnartino, Neap, fecit, 1753. E più nulla.
Cioè no: sul Cristo morto, su quel corpo bello ma straziato,
una religiosa e delicata pietà, ha gettato un lenzuolo dalle
pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela
la piaga ma la molce, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce. Sopra
un corpo di marmo che sembra di carne, un lenzuolo di marmo che la mano
quasi vorrebbe togliere. Niente manca dunque in questa profonda creazione
artistica: e vi è il sentimento che fa palpitare la pietra, turbando
il nostro cuore, e v'è l'audacia del creatore che rompe ogni
regola, e v'è il magistero di una forma eletta, pura, squisita.
Qual corpo morto era poc'anzi vivo, si contorceva nelle angosce di un'agonia
spaventosa; giovane e robusto, si ribellava alla morte. Non vi era sfinimento,
non vi era abbattimento; le fibre non volevano morire, il corpo non
voleva morire. Ma sotto le pieghe del lenzuolo la testa ha un carattere
stupendo: la fronte liscia ha un vasto pensiero; piangono gli occhi,
è vero, pel cruccio fisico, ma le labbra schiuse hanno una traccia
di sorriso, che è una indefinita speranza. E' vero, è
vero, il dolore è passato dal corpo all'anima; è vero,
l'anima è contristata, ma non è disperazione, ma non è
desolazione. L'anima, coma la bocca, è abbeverata di fiele, ma
una goccia di consolazione v'è stata. Tutto quel Cristo è
un dolore supremo, ma è anche una suprema speranza; ma il mistero
di quella testa divina è così grandioso, ma l'ammirazione
per la maravigliosa opera d'arte è così sconfinata, ma
la pietà del bellissimo estinto è così invadente,
che il pensatore si scuote e non frena più le acute indagini
della sua mente, l'artista s'inchina nella esaltazione dei suo spirito
ed il credente non può che abbandonarsi, piangente, sui piedi
del morto, cospargendoli di lagrime e di baci.
Singolare anima d'artista, doveva esser quella dello scultore, che ha
dato all'arte questo Cristo morto. Nell'opera sua vi è tutto
il suo spirito. Uno spirito dove sorgevano uguali, immensi, due amori:
quello per una donna, quello per l'arte. Infelicissimo, terribilmente
doloroso il primo. Solamente chi ha conosciuto il furore acuto di una
sofferenza senza nome, può far passare tutta la poesia di questa
sofferenza, nel marmo senza vita; solamente chi è vissuto nelle
lagrime, nell'angoscia, nella esaltazione di un'anima innamorata e solitaria,
può mettere nel marmo il solitario e cupo dolore di questo Cristo.
Lo scultore ha saputo, ha sentito. Ha saputo, ha sentito che cosa fosse
il tormento sottile, che stride come una sega piccina ed inesorabile;
la desolazione grigia, lunga, monotona, dove tutto è cenere,
tutto è nausea, tutto è disgusto; la disperazione larga,
e vasta, e lenta come una fiumana di pianto; la disperazione fragorosa
e tumultuante, come un torrente che tutto trascina. Chi ha fatto quel
Cristo, ha spasimato d'amore; ha amato ed ha pianto; ha amato ed un
fremito mortale gli ha sconvolto le fibre; ha amato ed una convulsione
ha contorta e spezzata la sua vita; ha amato, senza speranza, senza
gioia, senza diletto, abbruciando la propria esistenza nella tormentosa
voluttà del dolore. Solo un uomo che ama, può creare quel
Cristo morto; solo colui che soffre col trasporto, con la passione della
sofferenza, può mettere in una statua tutta la sublime epopea
del dolore. Ogni colpo di scalpello che scheggiava, rompeva, carezzava,
curvava, ammorbidiva il marmo, era una parola, un gemito, un lamento,
un grido, uno scoppio furente di questo amore. La passione dell'uomo
vivo, creava la Passione del Cristo morto.Perché quella tomba
non ha ritratto? - chiesi, di nuovo, uscendo dalla chiesa, mentre il
custode faceva tintinnare le chiavi.
Lo scultore non ebbe tempo di finirlo...
Quale scultore?
Il Sammartino,
Ah!...
...Morì prima di finirlo. Fu trovato in una straduccia buia,
di notte, con un pugnale nel petto.
Fu ucciso, o s'uccise?
Si crede che si fosse ucciso.
Come, nello strazio dell'ignota agonia,
la testa del morto scultore doveva rassomigliare a quella del Cristo
morto!
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