Le industrie alimentari sono
sempre state importanti nella cultura e nll'economia meridionali. Secondo un diffuso racconto, dopo l'occupazione normanna di Amalfi nel XII secolo alcuni maestri locali, già in contatto con i mercati e i mercanti orientali, sarebbero sfuggiti agli invasori rifugiandosi presso Gragnano tra i Monti Lattati e continuando lì la loro tradizione di pastai. Da Gragnano si sarebbero spostati verso Torre Annunzìata perché più adatta al commercio per mare e più vicina alla crescente Napoli. Altre leggende riferiscono di un'origine napoletana dei "vermicelli' che sarebbero stati inventati intorno al 1200 da un mago che abitava in una grotta presso il Vico dei Cortellari nel centro antico. E'certo, invece, che tra il 1600 e il 1700 i pastifici napoletani raggiunsero una fama indiscussa facendo affermare la corporazione dei Maccaronari come una delle più potenti in città. Proprio dalla fine dei XVII secolo il livello dei consumi iniziò a crescere rendendo necessarie le "importazioni" dai pastifici di Portici, Resina, Gragnano e Torre Annunziata: si consolidava così il consumo di un alimento-simbolo, conservabile, trasportabile e altamente nutritivo, capace di sostituire nell'uso locale la famosa "minestra maritata" (unione felice di verdure e carni) e di iniziare la storia altrettanto famosa della "dieta mediterranea". Fino al Cinquecento i produttori di pane erano anche produttori di pasta e la gramolazione (impasto di semola e frumento con l'acqua) doveva avvenire prima che l'acqua si raffreddasse ritagliando con rapidità tagliatelle, gnocchi o cappelletti. La diffusione della pasta fu favorita nel secolo successivo dalle prime meccanizzazioni dall'uso di torchi e impastatrici. Agli inizi dell'Ottocento fu pubblicato un manuale per favorire l'organizzazione di un moderno pastificio "togliendo l'uso abominevole di impastare coi piedi, grazie all'uomo di bronzo, una nuova impastatrice con lamine di bronzo inventata a Napoli". Nel 1856, alla Mostra Industriale di Parigi, il legato dei Regno consegnò la sua "cassetta con collezioni paste" portata in Francia "ad uso suo' e riuscì a vincere il primo premio tra i pastifici presenti all'esposizione. La produzione ormai si era diffusa e industrializzata: a Napoli e a Gragnano (con 81 macchine per manifatture e 28 per la molitura), a Torre Annunziata, a Ischia, a Melfi, dalle Puglie alle Calabrie. I nostri maccheroni erano esportati a New York, a Rio, a Odessa, ad Algeri, Atene, Maltai Pietroburgo e Amburgo (Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, fasci 484, 240, 170,171,172, 512) Molto diffusi erano i "trappeti", stabilimenti per la spremitura delle olive che, soprattutto in Puglia, iniziavano ad organizzarsi a livello industriale per fare fronte alle continue ed enormi richieste dal Regno e dall'estero. Un decreto di Ferdinando II nel 1844 cercò di tutelare la qualità dell'olio pugliese istituendo una sorta di marchio d.o.c.. Il vino iniziava ad essere prodotto a livello industriale: dal 1845 al 1846, ad esempio, le botti esportate negli Stati Uniti aumentarono da 989 a 2934. Numerose anche le fabbriche per la produzione di liquori dolci secondo la moda dell'epoca: i "centerbe" abruzzesi, le essenze di agrumi calabresi, i rosoli e le acquaviti pugliesi e campani; circa dieci complessivamente le birrerie. Centinaia gli addetti alla lavorazione di altri prodotti tipici: le liquirizie in Calabria (famose quelle del barone Barracco) e in Puglia; i confetti (specie negli Abruzzi), dolciumi, cioccolato e zucchero (Società Industriale Partenopea e Sarno), insaccati, mozzarelle e formaggi vari (ancora a livello artigianale e soprattutto nel Salento, nel casertano e nel salernitano). Grande la tradizione dei sorbetti napoletani: Giacomo Leopardi, secondo testimonianza di Antonio Ranieri, aveva "consacrato in lode dei gelati [della gelateria di Vito Pinto presso l'attuale Piazza Carità]" alcuni versi "per quella grand'arte onde barone è Vito ...". |