La Real Fabbrica
delle porcellane di Capodimonte fu il frutto della fusione di tradizioni
artigianali, della sensibilità artistica dei ceramisti, della capacità
imprenditoriale degli industriali e della precisa volontà di Carlo
di Borbone. Grazie anche all'iniziale supporto scientifico fornito dai tecnici specializzati della Sassonia, patria della regina Maria Amalia, si arrivò, con continue sperimentazioni, alla composizione di una pasta tenera definita "porcellana", misto di terre bianche provenienti da Atri e già usate in Abruzzo e di altre terre delle falde del Monte Maiella, "la prima gassosa, |
salina e plumbea, l'altra
alcanina, assorbente e leggiera".L'architetto Ferdinando Sanfelice
realizzò il progetto della fabbrica che avrebbe ospitato gli operari
che avrebbero lavorato coralmente (anche se valorizzandone le individualità)
e a stretto contatto con le famiglie ospitate nella stessa struttura.
Vi si producevano "zuccheriere, ciotole, chicchere, piattini, ciotole
alla genovese, boccali, boccalini, fiaschetti, tabacchiere, cornetti e
pomi di bastone, scatole a conchiglia di mare, scatole lavorate, composizioni
raffiguranti persone, animali, frutti e fiori". Tra artigianato e
industria si collocava anche un'altra delle produzioni tipiche e prestigiose:
quella del corallo, valse al Regno di Napoli io primo premio "per
coralli tagliati e incisi" nella Mostra Industriale di Parigi nel
1856. 40 le fabbriche per la produzione dei preziosi "cammei" e circa 300 le barche attrezzate per la pesca quasi tutte concentrate nella zone di Torre del Greco: il governo borbonico, per non privarsi dell'abilità dei corallari torresi, nel 1835 gli concesse l'esonero dal servizio militare.Continuando una tradizione antica quasi di sette secoli, delle duecento cartiere presenti nel Regno nel 1848 sessanta si potevano contare presso i comuni della costiera amalfitana. La famosa "carta d'Amalfi", filigranata e morbida, era utilizzata per gli atti giudiziari e pubblici al posto delle pergamene; nel 1858 le fu concesso anche una privativa per la sua proprietà di non lasciare scolorire l'inchiostro. La produzione variava da questa carta pregiata detta "di bambace" a quella "di strazzo" o "emporica" di largo uso specie tra i commercianti anche per i famosi "cuoppi" (contenitori ricavati dalla carta avvolta in forma conica). Altre grandi cartiere quelle di Fibreno in Terra di Lavoro, "le prime di queste province meridionali e forse d'Italia per qualità e quantità di prodotti" (con 500 operai e 1.130.000 metri di carta prodotti annualmente). Strettamente collegate all'industria della carta ma anche al clima culturale di tutti quegli anni, erano le tipografie, vere e proprie industrie del libro con oltre 400 titoli pubblicati ogni anno e circa 2500 addetti. 120 le stamperie attive solo a Napoli famose per le incisioni, le impaginazioni e le legature (tra esse la Stamperia Reale, le Reale Tipografia Militare e la tipografia del Tramater). La tradizione delle concerie napoletane risale all'epoca medioevale, durante il regno degli Angioini, furono concentrate nella zona del Mercato più vicina al mare (tra le strade della Conceria Vecchia e delle Vacche alla Conceria) trasferendole dal centro storico. Il trasferimento si era reso necessario per la disponibilità di acqua corrente utile per sciacquare le pelli, della spiaggia per asciugarle e del mare per scaricare le velenose sostanze di risulta. Si segnalavano diverse produzioni nel napoletano e presso Solofra specie nel settore dei guanti che spesso venivano lavorati anche a domicilio: la loro quantità era famosa nel mondo e ogni anno ne venivano prodotti ben 700.000 dozzine di paia. "Grandiosa" era definita nel 1852 la Real Fabbrica di Tabacchi a Napoli presso l'ex convento di San Pietro Martire: 1700 erano le lavoranti "sigariste" artefici, negli anni della crisi immediatamente successiva all'unificazione italiana, di uno dei primo scioperi femminili (con relativo lancio di oggetti e di strumenti di lavoro dalle finestre della fabbrica occupata per protesta). (Archivio di Stato di Napoli, fondo Qestura, fascio 12). Il tabacco lavorato a Lecce, altrettanto pregiato, doveva essere particolarmente apprezzato anche dal Papa Pio IX visti i frequenti invii registrati nel 1856 verso lo Stato Pontificio (Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Finanze, fasci 13153, 14153). |